* Inseriamo il racconto di Gabriele Boccalatte tratto dal suo libro “Piccole e Grandi ore Alpine”.

 

1935 - 1° agosto. - Sveglia alle 12e 30, partenza all’1 e 15. Con santa pazienza (se non fosse per quella parete lì, a quest’ora avremmo già cambiato zona da un pezzo!), riprendiamo il nostro cammino verso l’attacco, ripercorrendo le noiosissime morene e il ghiacciaio, per la settima volta nello spazio di pochi giorni! Poco dopo le 4, siamo all’attacco, dove abbandoniamo, sulle prime rocce, e bene in vista per il portatore che salirà a cercarle, scarpe, ramponi e piccozze. Alle 5, iniziamo la scalata. Con velocità, saliamo il primo tratto di parete, il camino bloccato lo faccio molto brillantemente e senza aiuto di chiodi; oggi mi sento bene in forma e deciso a tentare l’impossibile. Anche Ninì sale molto bene. Ricuperiamo gli anelli di corda e i chiodi lasciati per le corde doppie, durante l'avventurosa discesa dell’altro giorno. In un’ora e 25' siamo già sopra il primo salto. Proseguiamo subito, per arrivare al più presto alla fessura; alla fine del canale facile, saliamo più direttamente dell'altro giorno, senza spostarci sulle placche di sinistra. Oggi è un piacere l'arrampicare, la roccia è asciutta ed è un godimento il risalirla. Pensiamo, con senso di stupore, come questa stessa roccia si fosse trasformata l'altro giorno in uno strumento d'angoscia e di terrore, ai critici momenti passati, alla paurosa situazione sostenuta sotto la bufera, e ci appare un miracolo l'esserne salvi! Rivediamo il nostro povero posto di bivacco! Per un breve tratto di l0 metri ci portiamo a sinistra del canale e lo riattraversiamo a destra, dopo un passaggio abbastanza difficile. Magnifiche placche levigate con appigli buoni, ma molto piccoli e lontani, ci portano, con arrampicata sempre più bella, all'inizio della traversata, per avvicinarci alla fessura. Ricuperiamo altri chiodi; alcuni di essi si levano con gran facilità. Alle 8,05 arriviamo, dopo aver sorpassato lestamente i rimanenti passaggi elegantissimi ed esposti, al punto d'entrata nella fessura. Poiché è molto presto, ci concediamo un breve riposo, prima di attaccare le grandi difficoltà. Alle 8,30 ripartiamo. Lo salgo a tutt'andatura. Dopo i primi 15 metri, supero il tratto bagnato con un sol chiodo, tiro su i sacchi e li incastro nel fondo del camino, poi proseguo; allo strapiombo, metto 3 chiodi vicini, nella stessa fessura orizzontale, perché entrano molto poco e non danno affidamento; più in su, sotto l'altro strapiombo, devo attaccare i sacchi ai chiodi; in breve arrivo (con un altro chiodo, che rimane sul posto) al terrazzino, dove fummo fermati l'altra volta dal temporale. Si tratta ora di continuare, senza potersi assicurare; salgo con movimenti studiati, precisi ed elastici, per sfruttare i rari appoggi sfuggenti che servono solo per i piedi: bisogna avere molto equilibrio e sicurezza. Finito questo bellissimo passaggio, le rocce sono più facili per una quindicina di metri; un camino fortemente strapiombante sbarra l'uscita. Vado a vederlo da vicino, ma mi pare abbastanza problematico; in questo punto v'è però il modo di spostarsi dalla direttiva di salita, traversando un lastrone inclinato fino alla base di un diedro liscio e verticale. Con quattro chiodi e relativa carrucola, salgo lungo il diedro che non presenta l'ombra di un appiglio, fino a potermi, con larga spaccata, spostare in una spaccatura situata a destra del diedro e che, con grande difficoltà, porta a una larga terrazza. Finalmente potremo sostare un po' comodamente. Ninì deve affaticarsi molto per levare i chiodi, ma non riesce che a toglierne due dei quattro piantati. Ci riposiamo un po', soddisfatti per la sicura prospettive d'essere ormai fuori dalle difficoltà della fessura, che fin qui ci ha opposta una resistenza continua e feroce. Ancora un piccolo strapiombo e una lunghezza di corda su rocce non difficili, ci portano alla sospirata zona di terrazze viste dal basso. Riceviamo con gioia il primo sole della giornata; siamo in un punto estremamente selvaggio; le Dames Anglaises assumono di qui un aspetto singolare, hanno un colore rosso bruno; verso l’Aiguille Croux, un gran salto a picco ci separa dal ghiacciaio; più in alto la parete diventa estremamente liscia. Sembra impossibile; le nostre speranze di poterla attaccare direttamente, si perdono davanti agli enormi strapiombi gialli; l'unica speranza è rivolta alla «traversata». Ma sarà possibile?

Siamo impazienti di saperlo, poiché da questa dipende la riuscita della nostra scalata; ma siamo armati di molta fiducia nei nostri mezzi, e pronti a giocare tutte le nostre estreme possibilità e astuzie, pur di riuscire nell'impresa; anche se ci costerà lunga fatica e molto rischio. Per intanto, andiamo avanti, salendo in obliquo su rocce friabili e malsicure; più in là la loro larghezza si restringe e prosegue un filone caratteristico che corre stretto, interrompendo l'assoluta verticalità e levigatezza della muraglia. Giunti ad un certo punto, ci fermiamo su un piccolo terrazzino per mangiare; sono già le 14,20 e cominciamo ad essere un po' stanchi. Poi qui è un punto, dove il custode della Capanna Gamba ci dovrebbe vedere col cannocchiale. Lancio un acuto grido e tosto sento la risposta. Si vede un puntino nero girovagare sulle morene sotto il ghiacciaio del Fresnay, vicino alla parete dell'Aiguille Croux. Non sappiamo chi possa essere. Dopo un poco sulla neve vicino alla capanna si distingue bene un uomo; è di sicuro il custode, andato là secondo le nostre istruzioni. Si sente benissimo rispondere. In questo momento mi prende un particolare turbamento causato dall'essere in questo posto, d'aver quasi superata la parete, d'aver la certezza della vittoria, d'averla conseguita con la mia compagna. Quest'ultima è forse la ragione principale del mio stato d'animo, non solo perché in lei ripongo la massima fiducia, ma soprattutto per i vincoli che ci legano, e di conseguenza per un certo senso di responsabilità comprensibile. Inoltre per lo stesso ambiente indimenticabile in cui ci troviamo, e forse anche per altre infinite ragioni inspiegabili, sto attraversando un momento, se pur breve, di intensa commozione, come forse mai ho provato durante la mia carriera alpinistica. A stento, riesco a nascondere questo stato d'animo alla mia compagna, quando mi si avvicina. Questo momento lo ricorderò, senza dubbio, a lungo. Ci sediamo nel breve terrazzi no per mangiare, e ci lasciamo cullare dalla dolcezza del tepore solare. I minuti volano incredibilmente; dobbiamo muoverci e lasciare con rimpianto questo fantastico ballatoio, sospeso su di un impareggiabile precipizio. Alle 3,10, ci muoviamo, curiosi di vedere come sarà il tratto che ci separa dalla cresta Sud. Io salgo con impazienza, scrutando continuamente le rocce avanti a me; non posso mai vedere molto lontano, perché il percorso è aggirante e gli spigoli nascondono alla vista le rocce ulteriori. La salita è però facile; è una piacevole sorpresa questa; si procede un po' orizzontalmente, con straordinaria esposizione, e un po' in salita obliqua, superando successivamente 3 o 4 gradini di una diecina di metri l'uno. Infine un caminetto un po' più lungo ci porta ad una nuova traversata, per prendere una cengia a placche molto inclinate e lisce (passaggio abbastanza difficile) che termina sotto rocce strapiombanti; di qui, a destra, la continuazione della cengia conduce sulla cresta Sud, con arrampicata delicata su placche. Da sotto lo strapiombo, si può andare a sinistra; superando qualche metro di parete aperta per spostarsi a destra nel canalino che conduce sulla cresta Sud, un po' più in alto del punto precedente, proprio sotto l'ultimo passaggio difficile della cresta. Sono le 16,15 e ci fermiamo un po'; ormai siamo su una strada conosciuta; il passaggio difficile che ci sovrasta lo superiamo con tanta disinvoltura, da sembrarci un giochetto, in confronto ai passaggi superati in parete. Procediamo con tranquillità fino alla Punta Bich (ore 17,50-18); facciamo la corda doppia; do uno sguardo alla «direttissima» sotto l'intaglio, e ce ne andiamo, trovando tutto breve e facile in confronto all'anno scorso. Tutto ci pare più minuscolo, forse perché procediamo spediti e allegri, mentre l'anno scorso eravamo, in questo punto, stanchi da due giorni d'arrampicata. Il tempo però, pare voglia giocarci un brutto scherzo; già da qualche tempo fitte nebbiacce si formano sul Monte Bianco, spinte dal vento di Nord-Ovest; anche il Col de la Seigne è coperto di nera nuvolaglia. Ad ogni modo, cercheremo di portarci più in basso possibile sulla via solita. Prima della vetta, io scorgo, sopra di noi, un affare giallo e grosso che sventola; è una tenda; come mai una tenda in questo sito? Una strana figura pelata sbuca fuori e ci guarda con sorpresa; è un tedesco; poi ne sbuca un altro e ci dicono, dopo qualche allegra parola di saluto, che stanno bivaccando lì, per scendere domani sul colle delle Dames Anglaises e proseguire poi per il Monte Bianco. Tanti auguri e buona notte! Noi scendiamo beatamente canticchiando, giù per le facili rocce della via solita. Abbiamo ancora quasi un'ora di luce e cercheremo un buon posto da bivacco; lo troviamo a ridosso di un masso in strapiombo, v'è un biglietto coi nomi di Ludwig Schmaderer, Ferdinand Krobath e Adolf Gottner, i tre che fecero, l'anno scorso, la traversata Mont Noir-Monte Bianco; siamo grati ai nostri predecessori, perché il posto è ben costruito e ben spianato. Morbida terra ci rende un po' più soffice il giaciglio. Come posto da bivacco, è l'ideale, riparato, pianeggiante, morbido e con neve vicina da cui cola un po' d'acqua, vera rarità in questi luoghi e a quest'ora. Il raccoglierla ci costa però un po' di pazienza. Prepariamo bene il nostro posto e ci distendiamo. Domani mattina, avremo subito il sole e tranquillamente scenderemo a valle. Ma chi fa i conti questa volta è il tempo; infatti, è sempre peggiorato ed ora il cielo è tutto coperto di nebbia; ciononostante abbiamo fiducia; sarebbe troppo crudele obbligarci ad un'altra avventurosa discesa; di simili prove ne abbiamo ormai già fatte troppe!

L'inizio del bivacco trascorre tranquillamente; ripensiamo alla nostra giornata, agli ostacoli superati, alle emozioni provate durante il tentativo fallito per la bufera. Molte considerazioni sull'alpinismo mi si affacciano alla mente: la parete salita verrà, negli anni futuri, calpestata, come capita attualmente per le salite più difficili, e quindi più attraenti, dal giudizio di arrampicatori, che saliranno colla descrizione dell'itinerario nel taschino della giacca, leggendola ad ogni piè sospinto, senza preoccupazioni sulla ricerca della via, coll'unico impegno di superare le sole difficoltà tecniche (piantando magari un'infinità di chiodi) e, a salita compiuta, diranno che la credevano più difficile, ed altre cose del genere. Ma una ripetizione che cosa vale, oltre alla sola soddisfazione personale di aver superata la data parete? Fra l'aridità di un tecnicismo e la vera e più profonda manifestazione dell'alpinismo, consistente in quella creazione che è la prima ascensione di una grande parete, passa una differenza enorme. I sacrifici, i tormenti, le titubanze, l'applicazione di tutte le proprie risorse, date dalla nostra esperienza occorsa, la lotta cogli elementi avversi - e noi sappiamo quanto lo sono stati - la costanza necessaria per ritornare più volte all'attacco, attraverso il cammino intricato del ghiacciaio, l'andare verso l'ignoto per un puro ideale, hanno impresso in noi il senso di una conquista veramente completa sulla montagna, non solo sulle sue difficoltà, ma su tutti gli ostacoli che essa può opporre nel modo più terribile e spaventoso. Che cos'è il superare le rocce più lisce e difficili, in confronto alla forza necessaria per sostenere ore ed ore, giorni e notti, le più grandi bufere nei luoghi più impervi, dove ogni attimo di tempo richiede l'astuzia più raffinata e l'impegno totale della propria forza morale? Il così detto «spirito eroico» del 6° grado, dove si è assicurati ai chiodi, e dove è possibile salvare la propria esistenza, con un ritorno lungo le corde, impallidisce in confronto di quello richiesto dalle situazioni spaventose, dalle trappole tese dal brutto tempo, dove nulla può aiutarci, se non la nostra tenacia, la nostra resistenza, la calma, la forza morale, spinte all'estremo.

2 agosto - Verso la mezzanotte, comincia a nevicare. All'alba, 30 centimetri di neve ricoprono la roccia. Cade lenta e fitta come in pieno inverno. Altro che sole e discesa tranquilla! Non osiamo alzarci. Ci disgusta il pensiero di metterci in cammino, con le pedule, su quella neve. Attenderemo. Forse cesserà di nevicare e tornerà il sole. Ma purtroppo le ore passano e la situazione non cambia. Con l'alba, la neve cade ancora più fitta. Siamo bagnati. Ripariamo i nostri oggetti alla meglio: mi metto sotto la testa, come cuscino, il mazzo dei chiodi da roccia! Non sono certo morbidi, ma è l'unica cosa di cui dispongo, non volendo bagnare oggetti più utili. La sorpresa di questa nuova nevicata ci indispone veramente. Facciamo un po' di tè e ci mettiamo dentro al sacco da bivacco; l'acqua stilla sulla faccia e ci inzuppa i vestiti. Verso le l0, pare che il cielo si rischiari un po'; s'intravede persino, attraverso la nebbia, il disco solare; nevica meno. Le nostre speranze vengono però presto deluse, ritornano le nebbie fitte e nevica di nuovo intensamente; le rocce davanti a noi ne sono tutte coperte; una calma greve giace su ogni cosa, sembra che questa situazione debba durare eternamente. Ogni tanto osservo le rocce superiori, verso la Punta Bich, tutte bianche di neve. Senso di oppressione. Con la neve caduta, è un affare serio scendere; per fortuna siamo su una via facile: questa è l'unica consolazione, ma siamo molto alti e sappiamo quanto è lunga la discesa dell'Aiguille Noire. Pensiamo ai tedeschi sotto la tenda, in vetta. Se venissero giù! Almeno ci farebbero la pista, loro che hanno gli scarponi. Siamo quasi rassegnati a passare qui tutto il giorno e la notte seguente, se dovesse nevicare di continuo; a mezzogiorno decideremo sul da farsi. Dormicchiamo. Un rumore di piccozze ci avverte che i tedeschi stanno scendendo; ma con quale lentezza! A mezzogiorno, arrivano presso di noi. Il più giovane ci fa segno che batteranno bene la pista; con questa, la discesa ci è certo facilitata. Ci prepariamo e alle 12,30 li seguiamo. Dopo pochi passi, sbagliano strada. Nevica sempre. I nostri piedi si sono già inzuppati d'acqua. Io, che conosco bene il percorso, indico ai tedeschi, quasi ad ogni momento, la via da seguire. Vanno lentissimi. C'è moltissima neve e non si vedono gli ometti che segnano la via. Particolarmente delicati alcuni passaggi sulla «spalla», perché fatti in pedule e senza piccozza. Nel primo canale, facciamo una corda doppia; si attraversano canaletti pieni d'acqua; nevica sempre, però, essendo più in basso, è neve bagnata e sul terreno ce n'è meno; ma noi siamo inzuppati fradici. Nella prima parte della discesa, data la lentezza, si temeva di dover bivaccare una seconda volta, bagnati come si era, e senza viveri; però, man mano che proseguiamo, la speranza di arrivare al rifugio si accentua fino a divenire certezza; secondo i miei calcoli, infatti, prevedo che, nonostante la lunghezza della via tortuosa fra canali e creste, con qualche ora di luce eviteremo il bivacco. Queste mie previsioni rallegrano la comitiva; anche i tedeschi, benché bene equipaggiati, erano molto preoccupati, e continuavano a dire che «con questa neve è terribile andare avanti». Io e Ninì abbiamo fame: siamo anzi un po' storditi per questo motivo. Quello «pelato» ci offre con fraterno slancio un pezzetto di formaggio e pane, che, a dire il vero, ci ridà forza ed entusiasmo: con lo stomaco a posto, le cose si trovano tutte meno brutte di quello che sono! Alle 4, siamo in fondo al primo canale; poi raggiungiamo la cresta dei torrioni ed infine il gran canale che dovrà portarci al Fauteuil. È molto fastidioso l'avere i piedi bagnati e freddi. Io riconosco perfettamente la strada da seguire, non sbagliandola di un passo, e ciò evita più volte ai tedeschi di perdersi. Procediamo bene; ora si va meglio e ci siamo «scaldati»; io mi diverto perfino sui brevi passaggi delle placche e gradinetti; le pedule di feltro, bagnate, tengono abbastanza bene e si scende con passo normale; nevica però sempre. I tedeschi sono saliti ieri di qui, ma non si ricordano quasi più la strada; possono ringraziarmi, se non dormono al fresco un'altra volta! Finalmente l'interminabile strada sta per finire. Giù per il canale, andiamo in fretta; io scendo facendo anche dello stile, dove i tedeschi usano molte cautele. Giungiamo al rifugio verso le 18,30. Ci spogliamo e ci avvolgiamo, secondo il nostro sistema, nelle coperte; io e Ninì siamo quasi senza viveri; perciò ci accontentiamo di qualche rimasuglio e del pane secco trovato nel rifugio.