* Inseriamo il racconto di Gabriele Boccalatte tratto dal suo libro “Piccole e Grandi ore Alpine”.

 

1934 - 25 luglio. - All'una e mezzo di notte, confidato il nostro progetto al custode, che l'accoglie col più vivo stupore, ci mettiamo in cammino. Notte senza luna, atmosfera calda. Al banco roccioso, sul bordo del ghiacciaio, ci fermiamo un momento, per mettere i ramponi e legarci. Saltiamo uno alla volta sulla neve; questo salto mi fa un effetto strano, come di una mossa decisiva. Al lume della lanterna, seguiamo attentamente le tracce lasciate l'altro ieri. Alle 4,30, siamo alla base. Una nuvoletta passa velocemente sulla vetta del Monte Bianco, in direzione Ovest-Est. Brutto sintomo. Attendiamo, incerti sul da farsi. Eppure il cielo è tutto sereno e forse per oggi il tempo terrà. Mettiamo le pedule da roccia e lasciamo scarponi, piccozze, e ramponi in un angolo della roccia. Ancora uno sguardo al cielo. È sereno; ma sul Monte Bianco, l'alba non è convincente, il primo sole pallido e violaceo non preannunzia un giorno tranquillo. Attendiamo ancora un momento. Infine, prendiamo la decisione di salire magari fino a metà parete, per studiare più da vicino la possibilità di forzare l'ultimo tratto. Se il tempo cambierà, pensiamo, saremo in tempo a ridiscendere in serata al rifugio. Alle 5,30, inizio la scalata. Dopo pochi passi, vediamo un ragno; Ninì mi dice: «... matin, gros chagrin». Un nuovo sguardo al Monte Bianco mi rende pensieroso: una nebbiolina leggera si è formata verso il Colle Eccles e sale lentamente a lambire la parete meridionale del Monte Bianco. Sempre quel maledetto vento dell'Ovest! Avevo giurato pochi giorni fa, scendendo dalla Nord delle Grandes Jorasses, di non partire più per nessuna ascensione col vento dell'Ovest, anche se il cielo fosse stato completamente sereno, perché ormai innumerevoli esperienze mi confermano l'infallibile brutto risultato che ne deriva da questo vento, nemico degli alpinisti. Eppure la speranza ha anche il suo potente prestigio e molte volte, per questa, ci si lascia sorprendere da terribili situazioni. E così fu questa volta: la più terribile e la più spaventosa di tutte. Alla Nord delle Grandes Jorasses ci si riprometteva d'esser prudenti col tempo, perché, non vedendo il Monte Bianco, si ha minor sentore di ciò che avviene e perciò si può restare presi dalla bufera all'improvviso. È venuta infatti, ma ce la siamo cavata a buon mercato, con una solenne bagnata e una discesa più o meno piacevole, lungo le corde doppie. Qui alla Aiguille Noire de Peuterey, pensavamo, siamo di fronte al Monte Bianco, lo vediamo, e possiamo, notando l'avvicinarsi della bufera, scappare in tempo. Ed invece siamo stati presi inesorabilmente, fulmineamente. Ed appunto perché vicini al Monte Bianco, impossibilitati a fuggire in tempo prima del travolgente scatenarsi dell'uragano. Esperienze utili ma raggiunte a carissimo prezzo.

Con l'idea d'andare ad esplorare le fessure alte, ci arrampichiamo velocemente. In un'ora e mezzo, siamo già sopra il primo salto, dove c'è la spaccatura orizzontale. Scendiamo qualche metro a destra e andiamo su in fretta per un facile canale; dopo 50 o 60 metri, le rocce si fanno però più ripide e tondeggianti. Attraversiamo il canale e ci spostiamo a sinistra, per due lunghezze di corda in modo da veder meglio la fessura che sale diretta all'intaglio. Non si vedono che immani strapiombi. Allora, con una salita obliqua, su placche dagli appigli arrotondati (due chiodi d'assicurazione, 4° grado superiore) e con arrampicata deliziosa, ritorniamo nel canale sopra una strozzatura, dove non è più che una fessura abbastanza stretta e liscia. Di qua piccole cenge portano a destra e, sorpassato un canaletto secondario, saliamo sempre in obliquo. In alto, la parete è paurosa. A sinistra della fessura a cui tendiamo, altre due spaccature, chiuse da strapiombi neri e viscidi d'acqua, interrompono la continuità delle formidabili placche, ma sono irraggiungibili dal basso. In ultimo, una breve traversata su placca, dagli appigli piccoli, ci porta in vista della nostra fessura; rocce più facili ci permettono di raggiungerla. Per 15 metri è larga come un camino; poi si restringe ed è chiusa da strapiombi; il primo è bagnato e cola acqua; mi metto le pedule «manchon», perché finora ho tenuto quelle di para. Trovo difficoltà nel piantar chiodi; uno si stacca, mentre sto servendomene come appoggio; passaggio difficile (due o tre chiodi); bisogna tirar su i sacchi con molto perditempo e molta fatica; più in alto dovrò piantare appositi chiodi per tale servizio. Salgo una paretina e uno strapiombo, dove l'unico bell'appiglio si stacca mentre sto sollevandomi; ma, per fortuna, riesco ad ancorarmi col gomito nel fondo d'una fessura, evitando così un volo, se pur piccolo, data la vicinanza di due chiodi, che però sono poco sicuri, per la conformazione sfavorevole delle fessure troppo piccole o chiuse, perciò inadatte a piantarli. Lentamente si supera, metro per metro, l'estrema difficoltà di questa fessura; ancora uno strapiombo ed eccomi ad un esiguo terrazzino, dove mi posso fermare con relativa comodità, avendo appena i piedi appoggiati.

Viene su Ninì, levando i chiodi, i quali le esigono una forza e una pazienza a tutta prova. Il tempo, intanto, si è imbronciato e il Monte Bianco è coperto. Ma ormai siamo qui e speriamo in bene. Ma mentre mi accingo a proseguire, una ventata, foriera di tempesta, ci investe; il cielo è plumbeo, la bufera inevitabile. Siamo qui in aria, senza possibilità di scampo; ciononostante voglio continuare per vedere com’è sopra, se ci fosse per caso un posto per attendere gli avvenimenti del tempo con una relativa sicurezza. Salgo pochi passi su un diedro liscio, e mi fermo con i piedi su due appoggi lontani, in spaccata. Mentre studio il passaggio che si presenta oltremodo arduo, una folata di vento violentissimo mi investe; quasi contemporaneamente un denso nevischio comincia a picchiettare sulla roccia, aumentando gradatamente di violenza; in dieci minuti, ne siamo completamente ricoperti. Non posso muovermi dalla mia posizione. Ninì è sul terrazzino e cerca di riparare la corda dal bagnato; non posso scendere, perché in due non ci si può stare. Dalla fessura del fondo del diedro, comincia a gocciolare l'acqua che mi cade addosso e in breve mi bagna completamente. Il temporale aumenta sempre d'intensità. Data la temperatura non troppo fredda, non cade solo nevischio ma neve umida che bagna la roccia e ci inzuppa i vestiti. In breve, un ruscelletto si forma nella fessura. Che fare? È impossibile muoversi. Non si può neppure piantare un chiodo, per tentare di scendere a corda doppia. La roccia è compattissima. In alto non posso andare, perché ormai è tutto bagnato ed inoltre la cascatella d'acqua mi leva ogni speranza di poter salire, poiché ricevendola in viso, non potrei neppure vedere gli appigli. Non c'è che attendere un momento di calma. Dopo un’ora e mezzo, sono nell’esatta posizione di prima, dopo aver cambiato infinite volte i piedi sui due unici appigli che mi sostengono. Sono stanco e sento di non poter più resistere a lungo in simile critica posizione, su un passaggio di difficoltà estrema e senza assicurazione. Fortunatamente il temporale diminuisce e con molta cautela riesco a discendere fino al terrazzino, di dove, allungandomi in parete, posso piantare, con delicato gioco d'equilibrio, un saldo chiodo a cui infilo un cordino. Con complicate manovre, riusciamo, uno alla volta, a metterci in posizione di corda doppia e a scendere; con un’altra, raggiungiamo il punto d'entrata della fessura. In un momento di schiarita, persino un ironico raggio di sole viene a lambire le rocce vicino a noi; ma ben presto ritorna brutto. In fretta, rimettiamo in ordine la corda e attraversiamo le placche in direzione del canalino centrale della parete. Stiamo quasi per giungere sulle placche, sopra il canalino, quando si scatena improvvisa la seconda ondata della bufera, con violenza terribile e inaudita. Un uragano così impetuoso non l'ho mai provato in montagna; ci paralizza senza scampo, senza darci modo di muoverci; in tutto questo tratto, non esiste alcun riparo, siamo esposti completamente alla furia degli elementi. Con un crescendo impetuosissimo, la tempesta si riversa sulla parete, arrivando ad un livello di indescrivibile diabolicità. Tre fulmini cadono, accompagnati da fragori intensissimi. Ci colpiscono le scariche elettriche alle mani e ai piedi; ci sentiamo completamente inerti; ma quello che è terribile è lo scroscio d'acqua, grandine e neve che c'inzuppa in un baleno, intirizzendoci. Facciamo qualche passo indietro, per raggiungere un terrazzino, dove almeno possiamo appoggiare bene i piedi. In breve, la parete è letteralmente coperta di nevischio e acqua che scorre come torrente. I nostri poveri piedi sono ormai fradici; li teniamo in continuo movimento, per evitare un congelamento. Ripariamo una corda, mettendola nel sacco da bivacco di Ninì.

La situazione si fa disperata. Se la bufera continua così, non so come ce la caveremo. Ninì, oltre all'emozione, ha continui singhiozzi e crampi di stomaco, dati dal freddo e dall'eccitazione; mi fa molto pena vederla in quello stato. Sento improvvisamente tutta la responsabilità che mi sono procurato; non solo per essere qui con una donna, ma soprattutto per i legami che ci uniscono, e questo pensiero mi dà una strana e acuta sensazione; in questi momenti di estremo pericolo, il sentimento si eleva al disopra di ogni cosa e trasfigura tutto il nostro essere. Anch'io, preoccupatissimo sulla sorte a cui andiamo incontro, cerco di mantenermi calmo e la rassicuro, dicendole che il temporale passerà, che è questione di poco tempo, di saper resistere, che poi scenderemo e andremo fino al rifugio. Oh, pio desiderio! Come mi appare lontano il rifugio! La tempesta continua nella sua violenza implacabile. Agli orli delle rocce sporgenti, si formano cascatelle di grandine e nevischio che assumono aspetto di curiose piramidi; lo spettacolo è impressionante. Poco alla volta mi convinco che purtroppo al rifugio non arriveremo; penso all'unico posto dove forse è possibile, non ripararci dalla neve e dall’acqua, ma almeno stare al sicuro, e cioè alla spaccatura sopra il primo salto. Arrivare almeno sin là sarebbe già qualcosa! Siamo completamente fradici e così tutta la roba dentro i sacchi; non ci resta più nulla di asciutto.

Ciò che ci tormenta di più è però l'avere i piedi inzuppati. Abbiamo l'impressione di non poterci più salvare; ma ad ogni costo bisogna tentare d'uscire da questa trappola, cercare di scendere almeno a un posto più sicuro; finché abbiamo forze, dobbiamo lottare per la nostra salvezza.

Mentre la bufera continua senza posa, ci decidiamo a muoverci; stare qui è impossibile. All'acqua e alla neve si sono aggiunte le pietre che, smosse dall'acqua, cadono continuamente, col pericolo di colpirci da un momento all'altro. È molto penoso doverci mettere in cammino in simili condizioni, con la corda irrigidita dall'umidità e dover far le corde doppie. La neve ricopre ogni anfrattuosità della roccia. Un primo chiodo ci permette di scendere una paretina verticale; neve e neve sui terrazzini e sui tratti non molto inclinati. Ricerca snervante per trovare fessure, ove piantare i chiodi a cui fissare la corda doppia. Bisogna spazzar via tutta la neve dalle placche, cercare le fessure che non si trovano, e, quando se ne trova una, si pianta il chiodo che non tiene e che bisogna levare, cercar quindi un altro posto più adatto, con infinita pazienza, intirizziti dal freddo e dal bagnato, paralizzati dalla bufera tremenda che ci acceca, che ricopre sempre di più la roccia di neve, che riempie le fessure, che ci tortura senza sosta. I piedi guazzano nella neve bagnata e nei ruscelletti formatisi nelle rientranze della roccia; dobbiamo muoverci continuamente, per non lasciarci gelare. La seconda corda doppia e le successive ci hanno costato immensa fatica. Per ognuna di esse, dobbiamo perdere intere mezz'ore, prima di poter piantare i chiodi necessari, e questi talvolta entrano solo per un paio di centimetri, si muovono e pare debbano saltar via alla prima pressione. Scendiamo, così, lentissimamente con tutte le cautele possibili; non possiamo farci alcuna assicurazione e dobbiamo fidare esclusivamente su un pò di fortuna e sulla nostra attenzione divenuta spasmodica. Ogni volta che dobbiamo ritirare la corda doppia è un lavoro serio, non scorre e ci fa perdere tempo infinito. Neve e neve. Dove qualche ora prima salivamo contenti e fiduciosi su questa roccia asciutta ed entusiasmante, scendiamo ora, usando tutta la nostra energia e le nostre risorse, per salvarci da questa terribile trappola costruita in un baleno dalla tormenta più furiosa che finora abbiamo trovato in montagna. Ad un certo momento, io scorgo un punto, qualche diecina di metri sotto, pieno di neve e dall'aspetto pianeggiante; è un ripiano molto stretto, ma mi appare come una manna dal cielo. Cerchiamo di arrivare almeno fin là, ove si potrà sostare con relativa sicurezza. Il raggiungerlo ci costa ancora molta fatica e molto tempo. A poco a poco ci si abitua al rischio: dove nei primi momenti ci sembrava assurdo mettere i piedi su appigli minuscoli e sfuggenti, dopo qualche ora, appoggi forse ancora peggiori, ci danno la sicurezza che tengono benissimo. Anche il nostro spirito, come il nostro corpo, si plasma alle circostanze che ci sono imposte. Quando finalmente siamo tutti e due sul terrazzino, abbiamo l'impressione di aver trovato un miracoloso riparo. Poca luce ci rimane ancora ed è gioco forza adattarci a passare qui la notte; in queste condizioni anche l'arrivare alla spaccatura sopra il primo salto, diventa una impresa azzardata; non vi è più luce sufficiente, ed essere presi dalla notte, per strada, aggraverebbe ancor più la nostra situazione. Mentre la bufera continua sempre, cerchiamo di adattate alla meglio il nostro posticino largo, sì e no, poco più di un metro quadrato. Con le mani spazziamo via la neve che ricopre ogni pietra; ne rivoltiamo qualcuna, per non essere in contatto diretto con la neve; siamo alla base di un diedro da cui scorre abbondantemente acqua; non potremo neppure appoggiare la schiena contro la roccia. Infine prendiamo possesso del nostro... alloggio e ci infiliamo nei sacchi da bivacco. Ma non si può resistere a lungo con gli indumenti fradici addosso; leviamo le calze, tenendo nudi i piedi dentro il sacco da montagna; la giacca la distendiamo in modo da ripararci un pò dalla neve che cade incessantemente, rimanendo con pochi panni bagnati addosso che, invece di scaldarci, ci fanno ancor più tremare dal freddo. Inutilmente, ogni tanto, cerchiamo di torcerli per levarne l'acqua che li inzuppa, non c'è modo di riuscire anche in minima parte, ad asciugarli. Se si sta chiusi nel sacco, è un tormento sentire il contatto dei panni gelati; se si sta fuori, la neve che cade non è certo un coefficiente a farci star meglio; così, lentissimamente, passano i minuti e le ore di questa terribile notte. La nostra preoccupazione è di non lasciarci prendere dal sonno; dobbiamo usare tutta la nostra volontà, per combattere il desiderio di abbandonarsi, di lasciarsi vincere da quel senso di rassegnazione che poco alla volta si va insinuando in noi e che, in queste situazioni, è il nemico peggiore. Inoltre, la stanchezza si fa sentire e sarebbe facile addormentarsi, ma siamo mezzo gelati e guai a stare inerti, senza reagire. Per evitare il pericolo di un congelamento, continuamente facciamo massaggi ai piedi e alle mani, senza tuttavia riuscire ad averli asciutti, neppure un sol momento in tutta la notte. La neve entra nel sacco da bivacco, si scioglie, e bagna ogni cosa. Tiriamo fuori da un sacchetto i nostri viveri, tutti imbevuti d'acqua, ma anche il mangiare ci sembra disgustoso. Per un vero miracolo, ho potuto salvare qualche fiammifero; con astute manovre accendiamo la nostra scatoletta di «Sterno» così, per avere un'illusione di calore. Tutto ci diventa indifferente; abbiamo un solo desiderio; quello di qualche cosa di caldo, di un pò di calma nella bufera, di riposare. Il nostro pensiero corre al rifugio così immensamente lontano e irraggiungibile, alle dolci vallate, ai praticelli inondati di sole. La fantasia immagina le cose comode e facili della vita, mentre ci si assopisce. Invece siamo qui, coi muscoli rattrappiti dal gelo in questo luogo sperduto, senza la minima speranza di aiuto, sotto la neve e nel buio di questa notte che pare non debba mai aver fine. Dopo la mezzanotte, la bufera si calma, cessa quasi di nevicare, il cielo si schiarisce un pò e tra la nebbia intravediamo una stella. Subito le nostre speranze si ridestano, pensiamo ad un'alba serena ed al sole che verrà a scaldarci, ad asciugare i nostri vestiti, a rianimarci. Ma è una breve illusione; dopo un’ora riprende a nevicare come prima e più di prima. Le ultime ore della notte sono eterne; automaticamente ci scuotiamo, di tanto in tanto, di dosso la neve.

26 luglio - La luce ritarda a venire; i monti sono tutti racchiusi nella nebbia; non si vede nulla, tutto è uniforme e triste. Così sorge il nuovo giorno che, invece di portarci letizia e conforto, ci fa sentire ancora più la gravità della nostra situazione. È necessario conservare la calma, essere fiduciosi nelle nostre forze, essere ottimisti. Le placche che ci circondano assumono uno strano e fantastico aspetto; sfuggono da ogni lato e si disperdono nella nebbia grigia e tetra, confondendosi con essa; non si discerne alcun risalto, tutto sembra uguale, monotono, confuso, avvolto in una medesima atmosfera. Sono questi gli aspetti più paurosi della montagna, ma sono pure quelli che rimangono più profondamente impressi nel nostro spirito; è un fascino speciale che attrae l'uomo verso le espressioni più potenti della natura. Alla prima luce, ci prepariamo ad abbandonare il nostro bivacco; infiliamo nei piedi delle calze che inutilmente abbiamo tentato di fare asciugare e le nostre misere pedule ridotte ad uno straccio. Ci alziamo e ci rimettiamo in assetto di marcia, tremanti dal freddo e coi muscoli rattrappiti dal gelo e dalla posizione obbligata della notte. Non mangiamo nulla; vogliamo partire subito, senza più perdere tempo. Nevica sempre, inesorabilmente.

Alle 5, lasciamo questo luogo che rimarrà lungamente impresso nella nostra memoria; con lentezza, ci mettiamo in cammino, spazzando via la neve che ricopre i gelidi appigli. Dobbiamo procedere con infinita cautela; la discesa è pericolosissima; le pedule fradice non tengono sulla roccia incrostata di ghiaccio e si rischia ad ogni momento di prendere uno scivolone. Dopo pochi passi, ricorriamo alla corda doppia, vera tortura sia per la difficoltà di ricuperarla, sia per il tempo necessario per prepararla, per le introvabili fessure ove piantare i chiodi. Dopo due ore e mezzo siamo finalmente in vicinanza della spaccatura, dove possiamo riposare un momento, al riparo della neve che continua sempre a cadere. Di qui in giù, procediamo un pò meglio; le rocce sono verticali e non tengono la neve, perciò possiamo fissare le corde doppie con più agio. Verso la fine della discesa, ci mancano gli anelli e dobbiamo tagliare alcuni metri della corda di cordata.

Alle 10,30 la diciottesima corda doppia ci porta sulla cengia, alla base della parete. Rimettiamo le nostre scarpe con un paio di calze spesse lasciatevi dentro. Una breve fermata per mangiare un pò. Alle 11, coi ramponi ai piedi, ci inoltriamo, fra la fittissima nebbia, sul ghiacciaio del Fresnay, alla ricerca della giusta via, per scendere al rifugio. Non si vede a dieci passi di distanza; però, coll'aiuto della mia memoria e dell'istinto, per cui assai difficilmente smarrisco una via, percorsa anche una sola volta e dopo molto tempo, riesco a seguire, con incredibile esattezza, l'intricato itinerario che si snoda fra i seracchi e i crepacci dello sconvolto ghiacciaio. Un senso di calma si impadronisce di noi; mentre l'occhio vigile scruta il passaggio, si chiacchiera tranquillamente di cose estranee e lontane, come se fossimo in una piacevole passeggiata. Arriviamo finalmente alle morene, al di fuori di ogni pericolo; qui la nevicata si cambia in fitta pioggerella, ché, tanto per rendere completo il quadro, ci propina un'ultima bagnata, accompagnandoci giù per i ghiaioni, fino al nostro arrivo in capanna. È l'una e mezzo del pomeriggio. Il custode ci viene incontro festosamente e ci accoglie con gentilezza veramente fraterna; in questi due giorni è rimasto sempre in uno stato di comprensibile ansietà per la nostra sorte, sapendo in che razza di ginepraio eravamo andati a cacciarci. Ci dice che, per tutta la notte, è stato in fortissima apprensione, vedendo a qual punto d'impetuosità il temporale si è scatenato senza tregua, da ieri ad oggi. Un'enorme quantità di grandine è caduta nella zona del rifugio. Ed è quasi con sgomento che apprende i particolari della nostra avventura, che, per il luogo e per i disagi sopportati, sotto una furia di elementi di cui è difficile immaginar l'uguale, per la violenza e la continuità, è la più straordinaria ed emozionante della nostra vita alpinistica.

Mi ricordo sempre di quella passata con Guglielmo Parmeggiani, nel 1929 , sulla parete Est del Grépon, in condizioni pure disastrose, per la neve, i bivacchi, le corde doppie e il rischio; ma qui, sulla Ovest della Aiguille Noire de Peuterey, è stata ancora più grave, dato il luogo più difficile, la violenza maggiore della bufera, e il dover procedere con le sole pedule da roccia, mentre al Grépon avevamo gli scarponi chiodati e le piccozze. Mai come questa volta, potemmo apprezzare l'ospitalità di un rifugio; mettiamo subito i panni fradici ad asciugare e ci avvolgiamo in asciutte coperte. Finalmente possiamo sedere al tavolo e saziarci di cibi che ci sembrano di una squisitezza insuperabile. Poi andiamo a riposare. A sera giungono due tedeschi che si attendano fuori del rifugio.