* Inseriamo il racconto di Gabriele Boccalatte tratto dal suo libro “Piccole e Grandi ore Alpine”.

 

1936 - 27 agosto. - Saliamo lentamente da Entrèves al Rifugio Torino; sono deciso a provare domani il Mont Blanc du Tacul; se non va, andremo dopodomani alla traversata dell’Aiguille de Chamonix, dato che il Monte Bianco, dalla direttissima, non mi pare in buone condizioni, a causa dei seracchi in alto. Giunti al rifugio verso le 18,30, non andiamo neppure al Col des Flambeaux a vedere le condizioni del Mont Blanc du Tacul. Partiremo decisi, senza star lì a perdere tempo in ricognizioni inutili.

 

1936 - 28 agosto. - Alle 2,40, usciamo dal rifugio, coll'animo insolitamente tranquillo, almeno io, (di solito, quando si va all'attacco di una salita che si prevede molto ardua, si è sempre pieni di preoccupazioni e di timori) e camminiamo sull'ampio ghiacciaio, fin sotto la parete scura e tetra; rimontiamo il pendio che ci porta alla crepaccia terminale. Ho intenzione di attaccare per un canalino che conduce direttamente a un colletto dopo un primo salto (quello scalato da Giusto Gervasutti nei suoi tentativi). La crepaccia è insormontabile direttamente, perciò bisogna cercare un passaggio contro la roccia, a destra. Alle 5, ci fermiamo a legarci e alle 5,30, quando già si vede discretamente, io parto alla ricerca del punto di passaggio, per oltrepassare la crepaccia. Fra la roccia e il ghiaccio, una placca breve, ma molto liscia, ci impegna, scuotendoci completamente il sonno di dosso e segnando l'inizio della salita, che si annunzia ardita e meravigliosa. Un brevissimo pendio di neve dura, e rocce non troppo difficili, portano al canalino che finisce al colletto. Si sale, tenendosi quasi sempre sulla roccia, sgretolata ed insidiosa; poi, una paretina di 20 metri assai divertente (4° grado) e un tratto di 30 metri di ghiaccio, conducono all'intaglio; due anelli di corda, uno qui e l'altro sopra la paretina, testimoniano il recente tentativo dei francesi e degli svizzeri. All'intaglio, la faccenda cambia subito aspetto: lo spigolo del pilastro che sta sopra di noi è impercorribile; a destra, grandi placche di ghiaccio lucidissimo ricoprono la roccia per lunghissimi tratti. Di qui il problema si presenta subito serio; osservando bene si capisce che occorre raggiungere, in alto, uno spigolo di roccia asciutta, che rappresenta la linea direttissima d’ascensione; le condizioni non sono incoraggianti; bisogna cercare di evitare i percorsi sul lato Nord degli spigoli, altrimenti si incorre in tratti tutti coperti di neve o di ghiaccio. Dopo una breve fermata al colletto (ore 7,15), inizio una salita obliqua su rocce quasi verticali e ricoperte di ghiaccio, con la convinzione che oggi giocheremo il tutto per il tutto, allo scopo di riuscire nella nostra impresa; sono pieno di entusiasmo e di ottimismo, disposto anche a impiegare due intere giornate per la salita. In alto sporgono fantasticamente dei gendarmi altissimi rossi e lisci come monoliti; è stranissimo l’aspetto di questi gendarmi; ciascuno di essi pare una vetta a sé, isolata. Sulla traversata obliqua, alcune roccette affioranti permettono il passaggio, ma richiedono molto equilibrio e discernimento, perché alcune sono instabili: con una serie di spaccate da un sasso all’altro, in delicato equilibrio su pochi centimetri di roccia o su piccoli scalini intagliati nel ghiaccio vivo, giungiamo su rocce asciutte, né facili, né difficili, ma assai piacevoli da arrampicarsi. Qualche lunghezza di corda ci porta all'inizio di un salto ripidissimo dello spigolo centrale. Sul ghiaccio si vedono distintamente alcuni scalini recenti di salita e, più a destra, altri scalini, forse di discesa, segni del tentativo degli alpinisti stranieri. All’inizio delle vere difficoltà, non troviamo più tracce. Man mano che si sale, le difficoltà aumentano. Dapprima si alternano ghiaccio e roccia, poi, tenendosi verso lo spigolo, si può salire su roccia più pulita, a destra della quale un grande ed estremamente ripido pendio di ghiaccio verde, toglie ogni velleità di salita da quella parte, a meno di esserne costretti da assoluta necessità. Passaggi difficili (3 chiodi); faccio rotolare un blocco instabile che mi ostacola il passaggio di una lievissima cengia. Si arriva così, da destra verso sinistra, esattamente sul filo dello spigolo. Un vento gelido ci ha intirizziti fino a questo punto; ma ora, sullo spigolo, al sole, possiamo salire piacevolmente. Una meravigliosa arrampicata su roccia saldissima, il più bel granito che si possa incontrare, ci riempie di gioia e ci infonde sempre maggior fiducia. La roccia vista dal basso, sembra impossibile, senza fessure e senza ripiani; invece, salendo, si trovano appigli buoni e quelle piacevoli lame sottili che il generoso granito certe volte impensatamente ci offre. Per un lungo tratto seguiamo lo spigolo; io salgo, poi tiro su i sacchi. Ambiente stupendo di rocce a picco per centinaia di metri, di canaloni ripidissimi, di visioni fantasmagoriche di un mondo che ci pare soprannaturale. Fermata dalle 9,30 alle 9,45 (fotografie). Prima del termine del nostro spigolo, bisogna girare un pò a sinistra, perché la salita diretta diventa troppo problematica: si potrebbe traversare nel canalone di sinistra, parallelo allo spigolo, ma è colmo di ghiaccio e neve polverosa; preferiamo tenere la roccia, anche se ci oppone difficoltà senza sosta. Una bellissima fessurina di 12 metri, verticale, con pochissime prese, ci fa sentire la delizia dell’arrampicata alla Dülfer, la quale, sul granito, data la presenza delle lunghe fessurine, si presta assai bene, e si adotta istintivamente, più che in seguito al ragionamento derivato dall’esperienza della tecnica moderna. Sotto un salto liscio, traversiamo a sinistra, in vicinanza della parte superiore del canale suddetto, su rocce più facili, che ci servono per contornare un monolito alto una cinquantina di metri, sottilissimo e librato miracolosamente. A sinistra, una tetra parete insormontabile accentua il carattere già estremamente selvaggio del luogo. La salita non è mai facile; rocce grigie che sembrano rotte, sono invece conformate a scannellature verticali e superficiali, offrenti ben pochi appoggi sicuri; ogni tanto si trova qualche scomodo posto di riposo; appena girato il monolito, si riafferra lo spigolo; siamo di nuovo all’ombra e il vento gelido soffia inesorabile e continuo. Due lunghezze di corda sul filo dello spigolo, e una terza di fianco a questo, ove si trovano difficoltà forti per quelle superficiali scannellature con rari appigli (due appigli artificiali fatti con il martello), ci portano in un sito simile a una piccola spalla, ma in realtà molto ripido, dove termina il grande spigolo or ora salito. Lo spigolo qui si perde in parete, a sinistra; superando questa parete, si può raggiungere un altro spigolo, al disopra di un grande tratto impercorribile, che è quello che, diventando cresta, sale direttamente alla vetta, dividendo in due settori la parte superiore della grande parete Nord-Est. Dalla fine dello spigolo salito, fino ad arrivare in cresta a quello più sopra descritto, salendo sempre in direzione della vetta, ma leggermente in obliquo a sinistra, si deve superare un lungo tratto (4 lunghezze di corda) verticale, pieno di ghiaccio o di neve polverosa a seconda dei punti, molto repulsivo, pericoloso e difficilissimo. Ormai siamo a un punto tale che tornare indietro significherebbe impiegare assai più tempo che in salita, bivaccare, e avere lo scacco irreparabile, oltre al pericolo e alle difficoltà. Bisogna assolutamente proseguire, a costo di superare difficoltà enormi. Il freddo è intenso per il vento e la zona ghiacciata è in ombra, in cui ci troviamo. Oltrepasso un tratto con molta neve polverosa, ripidissimo, dove, con le mani doloranti per il gelo, devo spazzare la neve e ripulire le roccette che affiorano. Questo lavoro richiede una pazienza, una resistenza e una tensione nervosa portate all'estremo; non si può fare alcuna sicurezza, in nessun modo, e non si trova nessun posto di riposo. Dopo una lunghezza di corda, si arriva alla base di un muro verticale che bisogna contornare a destra; si passa su esili appigli instabili con la massima precauzione (chiodo), per poter andare verso una specie di canalino colmo di ghiaccio verde, unica via nella quale riponiamo le nostre speranze. La scalata del canalino, assai superficiale è molto difficile; con la piccozza bisogna liberare dal ghiaccio durissimo la roccia, che a sua volta è liscia e verticale. Dopo un passaggio rischioso, si continua nel caminetto con lo stesso lavoro faticoso e lento; le mani sono gelate e contribuiscono a rendere penoso il procedere su questo tratto. Ninì ha un’infinita pazienza, ma soffre molto per il freddo alle mani. (Un chiodo nel caminetto, due, in alto per la sicurezza). Infine si può attraversare a sinistra, con grande difficoltà; con 5 o 6 lunghissimi passi su appoggi rivolti in basso (dopo averli liberati dal ghiaccio con la piccozza) che servono solo per i piedi, non avendo nulla a cui afferrarsi con le mani il corpo striscia con la massima cautela contra la paurosa levigatezza e ripidezza di questa colata di ghiaccio verde. Non è il solito pendio ripidissimo di ghiaccio, dove basta aver pazienza di scalinare per mani e piedi; tutta la tecnica più raffinata della progressione su roccia, la si deve usare qui per il ghiaccio più insidioso che si possa trovare. Può darsi che, in annate calde e più favorevoli, si possa trovare questo tratto, come molti altri, in condizioni migliori e passare più o meno facilmente sulla roccia, dove oggi gli appigli sono completamente ricoperti da uno strato di ghiaccio, il quale, si sa benissimo, può rendere con la sua presenza sommamente difficile e pericoloso un percorso di roccia facile ed onesta. Dopo la breve traversata, si sale direttamente una parete verticale di roccia un pò malsicura e delicata, che ci porta finalmente sul filo dello spigolo visto dal basso. Possiamo riscaldarci un pò al sole che ancora, per pochi minuti, illumina queste rocce, prima di scomparire dietro la vetta del Mont Blanc du Tacul. Sono le 14,45. Finalmente al sicuro, possiamo permetterci un breve riposo per mangiare. Dopo 20 minuti, il sole è scomparso e ritorna il freddo ed il vento gelido ad incitarci alla salita. A sinistra, una specie di canale di neve dà speranza di salire, abbastanza in fretta, verso la cresta terminale, raggiungendola molto al disopra della Punta 4081. Ci teniamo invece a destra, sulle rocce non tanto difficili, e per lo meno riparate dal vento, dello spigolo centrale. L’ambiente è grandioso e selvaggio; stupenda, questa meravigliosa roccia rossa, dalle pareti verticali e inaccessibili. Al punto dove siamo arrivati, vi è un piccolo colletto; dal lato Nord vi arriva un canale di ghiaccio vivo che è il proseguimento del canalino da noi poco prima salito; dall’altra parte, rocce abbastanza rotte. Attraversiamo a sinistra del grande spigolo impercorribile. Una breve esplorazione, per vedere se si può passare sul lato Nord, tutto pieno di ghiaccio e rocce di dubbia percorribilità, mi convince che la migliore soluzione è di continuare a sinistra dello spigolo, in vicinanza del canale di neve; in alto, sembra sbarrato da una parete verticale, ma speriamo di poter ugualmente proseguire o col riprendere, ritornando a destra, lo spigolo sopra il salto che ora ci sovrasta, o col raggiungere direttamente quello che unisce la Punta 4081 alla vetta, prima della congiunzione con quello centrale. Andiamo in fretta sulle rocce abbastanza facili; dopo mezz’ora, siamo al termine del canale sotto la parete verticale che, a parte la friabilità delle rocce, non oppone grandi difficoltà. Finalmente arriviamo sullo spigolo che, dalla Punta 4081 porta direttamente in vetta; la raggiungiamo però direttamente, con pochissimo spostamento da quello «centrale». Ora si vede dall’altra parte, verso le bellissime Aiguilles du Diable; sono le 16,20.

Ninì, forse perché l’andatura continuata, quasi senza soste da questa mattina, l’ha stancata un pò, mi propone di cercare un buon posto di bivacco; ma io sono sicuro del fatto mio; so che arrivare in punta, anche all’ultimissima luce, significa arrivare al rifugio, perché in brevissimo tempo, dalla vetta, si possono raggiungere le piste del Monte Bianco e scendere lungo quelle, senza preoccupazioni, anche di notte, o con la luna, se c’è, o con la lanterna. Certo, però, che la salita è ancora lunga e non c’è tempo da perdere, se vogliamo evitare il bivacco. Perciò nessuna fermata. Io proseguo senza tregua su per le rocce mai facili e faticose. Si segue più o meno lo spigolo. Un lungo tratto di corda, un pò a destra in parete, ci occorre per sormontare una serie di caminetti verticali, chiuso ciascuno in alto da blocchi sporgenti, che rendono i passaggi assai faticosi; poi, ancora alcuni blocchi, una spaccata, un giro a destra dello spigolo, un passaggio delicato di paretina e una traversata su roccia con neve; scavalchiamo un gendarmino, scendendo dall’altra parte a corda doppia. Altro tratto di corda su rocce piene di neve. Fa freddo per il vento incessante e per il trafficare nella neve. Ancora un pò sotto lo spigolo, a destra (passaggi delicati} fino alla base di un ardito spigolo sottile, alto una quarantina di metri, che da solo costituisce un’arrampicata simile ad una delle Aiguilles du Diable; assai interessante la salita di questo alto gendarme imprevisto, espostissimo ed aereo in modo eccezionale; a sinistra un gran salto a picco sul «vallone» del Couloir, salito da me nel 1931. Si sale un pò alla Dülfer con la schiena curva sul vuoto; ma dopo 30 metri, diventando problematico proseguire, con la corda passata su una sporgenza dello spigolo, attraversiamo a destra, in parete verticale, ma con buoni appigli; riceviamo ancora il sole, vera delizia, dopo tutto il freddo patito. Un’ultima traversatina a destra ci porta alla fine delle rocce, sotto il ripido pendio di neve che sale alla Punta Est del Tacul. Sono le 18,30; siamo dunque in tempo per giungere in vetta con la luce ed evitare così il bivacco che sarebbe tutt’altro che lieto con il freddo che fa. A sinistra, un pò in basso, rocce rotte si presterebbero al bivacco, ma non ci passa neppur più per la mente il pensiero di fermarci.

Il sole calante sfiora coi suoi raggi il pendio di neve, rendendolo iridescente; la neve pare cristallo con mille riflessi di ogni colore. Da quando abbiamo raggiunto lo spigolo centrale, sopra il tratto con il ghiaccio, è stata per noi una corsa dietro il sole; siamo arrivati là in tempo per scaldarci, per pochi minuti, al suo tepore; poi, dopo tre ore e mezzo, l’abbiamo nuovamente raggiunto alla fine delle rocce, per gustarne ora gli ultimi raggi, come premio alla nostra fatica. Salgo il pendio di neve polverosissima e scivolosa come sapone; non attacca e i gradini sono infidi; è questa la caratteristica neve di altissima montagna. Quaranta metri di salita, e una crestina affilata, ci portano ad affacciarci sull’altro versante, al cospetto del Mont Maudit e del Monte Bianco. In breve raggiungiamo la vetta Ovest, la più alta (ore 19 circa) e immediatamente scendiamo.

Una cinquantina di metri, delicati per la cattiva qualità della neve che ci obbliga a camminare con molta circospezione, (siamo senza ramponi) e il largo pianoro della spalla del Mont Blanc du Tacul, ci portano a rintracciare la pista «carrozzabile» proveniente dal Monte Bianco; altre piste più piccole sul principio ci ingannano; ma poi, trovata quella principale, ci mettiamo giù dal pendio verso il Col du Midi. Una luce crepuscolare dona all’ambiente una bellezza indimenticabile; si scorda ogni fatica, si è allegri, e si gode dello spettacolo, coll’animo aperto a tutte le sensazioni più raffinate, liberati dal peso delle preoccupazioni della salita e colla soddisfazione della vittoria ottenuta così brillantemente e così fulmineamente, senza preparazione alcuna, riguardo allo studio preliminare della scalata, ma con una preparazione morale e tecnica, ben degna di una così bella conquista alpinistica. Quando si ha questa gioia nel cuore, allorché i pericoli della scalata sono terminati e si scende per una via facile verso il rifugio, si sente, in una forma veramente completa, la bellezza della montagna e la grandezza delle sensazioni che ci lascia nell’animo, meravigliose e inestinguibili. Quando queste espressioni della natura toccano profondamente il nostro animo, già esaltato da una vittoriosa giornata di lotta rude e superba, pare di andare al di là dei limiti della vita, di essere trasportati in un mondo superiore, come, oltre alla natura, solamente l'arte può farci arrivare, nelle sue espressioni più profonde. Si sente lo stesso stato d'animo di fronte alla musica del più puro artista, come di fronte a questi spettacoli della natura, resi più «grandi» dal nostro spirito, già alimentato e preparato dal complesso delle sensazioni e delle soddisfazioni avute in immediata precedenza. È lo stesso vertice che si raggiunge, al di là dei valori della nostra vita, sia attraverso l'amore, o l'arte, o la natura, quando la nostra commozione e la nostra sensibilità sono portate all'estremo.

La discesa sul Col du Midi è facile e semplice; nessun crepaccio largo, contrariamente al solito. Sul pianoro, dopo il colle, ci addentriamo nella notte, lasciando alle nostre spalle l'ultima lievissima luce; dobbiamo pur fermarci per fare la nostra cena, ma io, preferisco oltrepassare la zona dei crepacci, per levarci ogni fastidio prima della sosta. La luna sorge a rischiarare il ghiacciaio, e non c'è bisogno di accendere la lanterna; la nostra parete incombe paurosamente tetra e gelida sopra di noi; ci pare assurdo che 13 ore di arrampicata siano state sufficienti per domare le ostili difese di quell’immane bastione di roccia e di ghiaccio. L’abbiamo superato, senza neppur dare, all’inizio, uno sguardo alla parete, all’itinerario da seguire, ed ora ritorniamo, senza poter vedere la nostra via, ormai chiusa nell’ombra della notte. All'inizio della salita, nella zona dei crepacci (ora quasi inesistenti) ci fermiamo a mangiare. Sono le 20,40.

Dopo 20 minuti ritorniamo a camminare, per non lasciarci prendere dal freddo. La pista è ottima; la neve dura (fin dalla vetta del Mont Blanc du Tacul) ci consente di camminare ottimamente senza la fatica di affondare penosamente, come succede quasi sempre di sera sui ghiacciai a causa della neve ancora molle, o con la fastidiosissima crosta non ancora sufficientemente spessa, da sopportare il peso di una persona. Invece la giornata fredda di oggi ha impedito alla neve di diventare molle, con nostro grande sollievo. La tanto temuta salita del Col del Flambeaux, vero massacro per gli alpinisti affaticati, la facciamo bene, tutta d’un fiato. È una meraviglia, andare così, di notte, con la luna, per i ghiacciai; tutta la nostra gita è stata meravigliosa, ed ora si chiude nel modo più bello e desiderato. È il più caro premio che la montagna ci possa dare, imprimendolo incancellabilmente nel nostro ricordo. Arriviamo al Rifugio Torino alle 22,20; per entrare, dobbiamo svegliare Leone Bron, che ci accoglie entusiasmandosi per la nostra impresa.