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Giuseppe Dimai,

Emilio Comici,

Angelo Dimai.

 

Emilio Comici – (1901 – 1940) - CAAI

 

Nato a Trieste passò dalla speleologia all’alpinismo iniziando l’attività sulle Alpi Giulie.

Il triestino Emilio Comici non giunse all’alpinismo in giovanissima età, come altri suoi contemporanei, ma vi giunse invece dopo una prolungata attività speleologica praticata nelle vicine grotte del Carso.

Pare fin troppo facile l’immagine dell’uomo che esce dagli abissi oscuri e senza luce dell’interno della Terra per venire alla luce e poi salire la montagna mitica e simbolica verso il Cielo…!

Eppure, certo non per sua volontà, Comici di tutti gli alpinisti italiani di quel periodo fu il più idealizzato, il più conosciuto ed anche il più “reclamizzato” dalla stampa e dal regime, che lo fece quasi assurgere come simbolo dell’italico valore e della superiorità atletica della razza latina.

Non certo per sua volontà, di questo si può essere più che sicuri, ma forse perché gli amici che lo attorniavano furono un po’ trascinati dall’entusiasmo nell’esaltare le sue gesta e forse proprio perché gli stessi amici o non erano affatto alpinisti, come il giornalista Vittorio Varale, oppure erano alpinisti assai meno abili di lui, come Severino Casara.

Nel primo caso, Varale non essendo alpinista, come giornalista fu assai colpito dal carattere spettacolare delle realizzazioni di Comici in arrampicata artificiale – vedi la parete Nord della Cima Grande di Lavaredo – ed invece non comprese e non attribuì il giusto merito ad altre salite di Comici, come la via al Civetta, compiute in arrampicata libera prevalente ed assai più valide della Nord della Cima Grande.

Vi è anche da dire che molte salite di Comici furono realizzate con la moglie di Varale, la famosa e fortissima Mary: è probabile che attraverso i racconti della moglie, Varale (si ripete: non alpinista) abbia esagerato un po’ nell’esaltare certi aspetti di alcune scalate.

Nel secondo caso, è naturale che Casara rimanesse incantato dalle prodezze di Comici in arrampicata – il quale lo si è detto e lo si ripete era arrampicatore di Bravura eccezionale, in quanto si trovava nel caso tipico dell’allievo che osserva estasiato il grande maestro. Se Casara fosse stato forte come Comici, forse il suo giudizio sarebbe stato più equilibrato.

Comunque, Comici resta nella storia dell’alpinismo un personaggio “chiave”, come un Preuss o un Bonatti. E anche la sua personalità non è così semplice da tratteggiare, in quanto il triestino rappresenta alla perfezione il caso dell’alpinista un po’ triste e melanconico, romantico e solitario, dal carattere introverso e soggetto a rapide mutazioni di umore, in un’altalena di esaltazioni e depressioni che portano inevitabilmente alla realizzazione di imprese sempre autosuperanti, in una corsa fatale verso il traguardo della morte in montagna.

Comici non aveva delle grosse doti naturali ed atletiche, anzi si dice che la sua taglia fosse quella di un fantino. E’ probabile che questa supposta condizione di inferiorità lo abbia spronato ad una sorta di rivincita; infatti, attraverso la pratica metodica e costante della ginnastica e dell’atletica, riuscì a svilupparsi un fisico potente ed agile allo stesso tempo, come un rapporto “peso-potenza” decisamente favorevole in quanto la bassa statura ed il peso corporeo scarso gli permettevano di sfruttare al massimo il notevolissimo potenziale muscolare sviluppato con l’attrezzistica.

In arrampicata questa condizione favorevole gli permisero di affinare uno stile del tutto particolare, estremamente suggestivo, elegante, anche se forse un po’ ricercato e sovrabbondante.

Ma era comunque uno stile che rifuggiva l’essenzialità ai fini dell’impresa da compiere: per Comici l’arrampicata era soprattutto un momento estetico, un rapporto narcisista; la parete era il grande specchio su cui si riflettevano i gesti ed i movimenti dell’arrampicatore.

Gesti eleganti, fluidi e perfetti: l’importante non era raggiungere la vetta ad ogni costo, l’importante era raggiungerla lungo un tracciato ideale – la famosa via della goccia cadente – e arrampicare in modo elegante e sicuro.

In questo caso è giusto parlare di “arte d’arrampicare di Emilio Comici” ed effettivamente a Comici va attribuito il merito di aver perseguito questa strada, che in seguito raccoglierà i favori di moltissimi alpinisti e soprattutto dei giovani arrampicatori di oggi, sempre alla ricerca del “gesto” perfetto, armonioso ed elegante.

Con questi presupposti è quindi facile comprendere perché Comici fu soprattutto un arrampicatore puro e dolomitico e perché non spostò mai la sua azione sulle Alpi Occidentali, dove l’eleganza scompare sotto l’abbrutimento della fatica. E si comprende anche perché Comici non fu collezionista di salite; infatti, se si paragona il numero delle sue imprese con l’attività di altri alpinisti dell’epoca, si scopre che Comici in un confronto di questo genere risulta non certo il primo.

Ma Comici non va giudicato in questo senso: arrampicava per puro diletto e solo quando lo “stato di grazia” glielo permetteva.

Cercava nell’arrampicata qualcosa di diverso, qualcosa che va più in là della semplice vittoria sulla montagna e su se stessi.

E proprio per questo fu un insoddisfatto cronico. E proprio per questo non fu compreso e capito e sovente i suoi atteggiamenti nevrotici e contraddittori gli fecero piovere addosso critiche, calunnie e molte gelosie.

In fin dei conti Comici può anche apparire come una vittima delle situazioni più forti di lui: certamente era un arrampicatore libero nato, elegante e sicuro, capace di imprese superiori. Ma la storia, i fatti e le necessità di progredire lo portarono, o lo scelsero, come alfiere dell’arrampicata artificiale, di cui divenne perfezionatore, maestro e difensore.

Altri accusano Comici di essere stato favorevole all’ideologia del regime e di averne abbracciato in pieno, facendosene quasi paladino, il carattere nazionalista e competitivo.

Bisogna comunque stare attenti a non generalizzare troppo nel giudizio: Comici sentiva molto il problema di difendere ed innalzare il prestigio dell’Italia in alpinismo, realizzando imprese pari, se non superiori, a quelle compiute dai tedeschi sulle Dolomiti.

Ebbe infatti a dire: «Questo era il mio sogno, la mia aspirazione: porre in testa l’alpinismo italiano sulle Dolomiti». Ma non si dimentichi che Comici era triestino ed era “cresciuto” in un ambiente sportivo estremamente patriottico ed irredentista, tipico della città veneta.

Inoltre Comici fu forse il primo cittadino ad abbracciare la professione di guida alpina e quindi, come sempre purtroppo accade in questi casi, non fu accolto benevolmente dalle guide valligiane, le quali vedevano in lui un temibile concorrente. Si sa che in Val Gardena la vita più volte gli fu resa difficile dalle gelosie e dalle invidie dei locali. Ma il suo fu un esempio che ebbe seguito e favore: saranno poi moltissimi i cittadini che, intendendo dedicare la propria esistenza all’alpinismo, abbracceranno il mestiere di guida e si stabiliranno definitivamente in montagna.

A seguito di questo fenomeno la differenza tra cittadini e valligiani andrà facendosi sempre più tenue, in quanto le guide cittadine assumeranno l’iniziativa in numerose imprese di polso e comunicheranno il loro spirito ai valligiani che diverranno loro compagni di cordata. Comunque, nelle guide cittadine si noterà sempre una maggiore propensione a realizzare imprese al di fuori della professione piuttosto che a svolgere il proprio lavoro guidando i clienti. Oppure vi saranno casi in cui – vedi Rébuffat e Terray – le guide porteranno i loro clienti in imprese di grande valore.

Ritornando a Comici, i suoi meriti in campo tecnico sono unanimemente riconosciuti.

Sull’esempio austriaco e tedesco, egli fu uno dei primi a comprendere l’importanza della palestra di roccia ed infatti seppe scoprire e sfruttare magistralmente i piccoli salti rocciosi e le paretine calcaree della vicina Val Rosandra, aprendo agli arrampicatori un campo magnifico d’allenamento.

La palestra di roccia dapprima susciterà negli ambienti occidentali riprovazione ed ironia ma in seguito, quando ci si accorgerà che da palestre e da sistemi d’arrampicata praticati in Grigna, in Val Rosandra e a Fontainebleau usciranno alpinisti come Cassin, Comici e Allain, allora i giudizi un po’ affrettati dovranno essere ridimensionati ed anche negli ambienti occidentali ci si darà da fare per cercare luoghi idonei a praticare arrampicate d’allenamento nei pressi delle città.

Attraverso l’arrampicata in palestra Comici giunse a perfezionare la progressione in artificiale, elaborando l’uso della doppia corda, introducendo l’impiego delle staffe di cordino e quindi, di conseguenza, specializzandosi nel superamento di tetti e strapiombi con abili manovre, più impressionanti e spettacolari che difficili.

Cercò anche di studiare più a fondo le tecniche di assicurazione, che fino a quell’epoca erano sempre piuttosto improvvisate e complesse anche l’importanza di creare una scuola d’alpinismo, per costruire un forte vivaio negli ambienti cittadini.

Infatti la prima scuola italiana d’alpinismo fu fondata a Trieste proprio da Emilio Comici ed ebbe nome “Scuola Val Rosandra”, trasformatasi oggi in “Scuola Emilio Comici”.

 

I suoi itinerari famosi sono molti, e importanti:

 

1929 - Tracciò una via sulla Sorella di Mezzo al Sorapìs (Tre Sorelle-Sorapìs) con Giordano Bruno Fabjan che è considerata la prima ascensione italiana di VI grado.

 

1930 al 1933 – E’ tutto un susseguirsi di prime ascensioni che spaziano dalle Giulie a tutti i gruppi dolomitici, alla ricerca di problemi interessanti ed insoluti. Si può dire con certezza che nessuna via di Comici è banale, a prescindere dal grado di difficoltà,; essendo predominante il fattore estetico, ripetere una via di Comici è sempre un piacere ed una soddisfazione per chi ama l’arrampicata aerea, elegante e diretta.

 

1931 - 4/5 agosto. Emilio Comici e Giulio Benedetti compie la sua salita capolavoro, aprendo sulla parete Nord-Ovest del Civetta una via parallela alla Solleder; la Comici.

L’intento di Comici era di tacciare una vera e propria direttissima dalla base alla vetta, ma fu ingannato dalla prospettiva della parete vista dalle ghiaie d’attacco e quindi ne risultò una via molto diagonale e sicuramente assai meno valida della Solleder in quanto a logicità ed eleganza del tracciato. Ma dal punto di vista della difficoltà pura, la Comici supera nettamente la Solleder di quasi un grado, sia per la grande continuità dei passaggi difficili, sia per la difficoltà tecnica stessa dei singoli passaggi, dove si raggiunge il livello estremo in arrampicata libera e nei tratti artificiali – pochissimi in verità – resi necessari dal superamento di numerosi strapiombi e tetti aggettanti. La critica ha sempre definito la Nord della Grande di Lavaredo come la più grande realizzazione di Comici: oggi , in base anche al giudizio di molti ripetitori, si può tranquillamente affermare che la Nord della Grande fu l’impresa più spettacolare di Comici ed anche la più ardita nella concezione, in quanto osò affrontare l’impossibile, ma, dal punto di vista della difficoltà e come stile di salita, il suo capolavoro è sicuramente la via al Civetta.

Anche a giudizio dei ripetitori, si tratta di un’arrampicata di classe superiore, degna di stare al fianco delle vie di Andrich e di Vinatzer.

 

1933 – E’ l’anno di grazia ed il periodo in cui Emilio Comici esprime il meglio di se stesso in una serie di imprese estremamente difficili e contraddittorie dal punto di vista dei sistemi usati, che bene esprimono il carattere del triestino, combattuto tra l’arrampicata libera pura e l’artificiale.

 

1933 - Il 12 e 13 agosto con i fratelli Angelo e Giuseppe Dimai, dopo una lunga serie di tentativi infruttuosi, Comici vince la Nord della Grande di Lavaredo ricorrendo nei primi duecentocinquanta metri all’impiego sistematico dei chiodi e realizzando un’impresa che desterà i commenti più disparati, dall’ammirazione sviscerata alle critiche più severe. E’ comunque una salita storica, la prima che apre il cammino ad una lunga serie di imitazioni. Non si creda che la salita di Comici e dei Dimai fosse stata compiuta passando facilmente da un chiodo all’altro, come è uso oggi salire questa parete: l’arrampicata libera fu tirata a livelli di caduta e l’impiego dei chiodi fu ridotto veramente allo stretto necessario. La salita fu dunque compiuta con spirito estremamente elegante e pulito. Se critiche vi sono da fare, non sono certo rivolte al modo con cui la scalata venne condotta, ma piuttosto all’abbattimento di un tabù, al cammino futuro che si aprì con questa scalata. Di tutte le vie tracciate sulla parete Nord della grande, quella di Comici resta ancora la più “libera” ed anche la più logica. Ciò non sorprende, se si pensa che questa parete simboleggia alla perfezione l’impossibile in arrampicata libera e testimonia l’evoluzione dell’arrampicata artificiale nella lotta contro questo impossibile, dai timidi approcci di Comici fino alle degenerazioni compiute a furia di chiodi a pressione e di permanenze in parete di intere settimane.

Le difficoltà vengono valutate di VI grado (con diversi passaggi in artificiale). L’impresa desta stupore per la paurosa verticalità della parete.

 

1933 – Il 17 e 18 Agosto (o 8 settembre), Emilio Comici, assieme a Renato Zanutti e Mary Varale, scala l’aereo, elegantissimo Spigolo Sud-est dell’anticima della Cima Piccola di Lavaredo, da allora noto come Spigolo Giallo, autentico prototipo di scalata dolomitica di alta difficoltà, realizzando in pratica il suo ideale di dirittura, eleganza e perfezione estetica.

Oggi lo Spigolo Giallo è una “classicissima” delle Dolomiti ed è molto ripetuto, anche perché non si segue più il tracciato originale di Comici che tiene il filo di spigolo, ma in molti tratti si appoggia a destra su rocce più facili. Inoltre, come al solito, i moltissimi chiodi presenti in parete hanno svalutato il primitivo valore di questa scalata, ma il pensare di salire lungo quella lama gialla e verticale, dove nessuno aveva mai tentato, a quei tempi poteva essere scambiato per una pazzia e solo la padronanza assoluta della nuova tecnica ed il coraggio permisero a Comici di concepire e realizzare una salita del genere. Probabilmente in quel periodo vi erano altri che dal punto di vista del coraggio e delle capacità in arrampicata libera avrebbero potuto vincere la Nord della Grande e lo Spigolo Giallo, ma nessuno aveva perfezionato la nuova tecnica e nessuno ne era padrone come lui. Solo lui, quindi, poteva forse accingersi con una certa sicurezza alla conquista di quelle lavagne lisce, giallastre e repulsive. Comici “sapeva” per esperienza che con la tecnica del chiodo sarebbe passato dove in libera non si passava più e dove dal basso sembrava impossibile. Altri che non avevano acquisito la stessa esperienza, non potevano “sapere” e si davano già sconfitti in partenza. Dopo, una volta rotto il ghiaccio, tutto sarà più facile anche a molti altri contemporanei, come Cassin e i lecchesi, che ben presto, valendosi dell’esperienza e dell’insegnamento di Comici, realizzeranno imprese di pari valore ed anche più difficili, non avendo più da abbattere il forte ostacolo interno rappresentato dall’inibizione psicologica.

In un’altalena di depressioni ed esaltazioni, come ben risulta dal suo diario di scalate, la carriera di Comici prosegue sempre all’insegna della ricerca del nuovo e del superamento delle mete acquisite.

 

1933 - Emilio Comici, invitato da Mary Varale che sovente arrampicava con il gruppo dei lecchesi, si reca in Grigna ed apre una via di elevata difficoltà su un sassone alto una novantina di metri: il Corno del Nibbio. Comici in tale occasione illustra ai lecchesi le nuove tecniche della cordata e dei chiodi e permette loro di superare quell’impasse in cui si erano venuti a trovare.

 

1936 – agosto. Emilio Comici compie la 1° solitaria del Campanile Basso per il Diedro Sud-ovest - (via Fehrmann) in un’ora e quattordici minuti e la Preuss in venti minuti. Catena degli SfulminiGruppo di Brenta - Dolomiti di Brenta.

 

1937 - In uno di quei giorni “grandi” in cui gli alpinisti sogliono riscattarsi da amare delusioni esistenziali, Emilio Comici scala da solo, in tre ore e tre quarti, la “sua via” sulla Nord della Grande di Lavaredo, realizzando un exploit che lascerà ammirati e sconcertati gli ambienti alpinistici. Come se già non fossero bastate le imprese della Grande e dello Spigolo Giallo, quest’ultima scalata solitaria lo porta ancor più alla ribalta del mondo anche non alpinistico e si crea una fama di “Comici uomo-mosca”.

 

Emilio Comici entra nella leggenda (come sarà per Bonatti) ancora da vivo e nel bel meglio del suo agire, attirandosi, non per colpa sua, ma piuttosto per le esaltazioni troppo entusiastiche del giornalista (non alpinista, Vittorio Varale, marito della famosa e fortissima Mary, che fece molte salite con Comici) un mucchio di critiche ed un sacco di invidie velenose. Inoltre le esagerazioni della stampa cominceranno purtroppo a presentare al pubblico profano un’immagine distorta e non vera dell’alpinista, confezionando un modello artificioso dell’arrampicatore e creando nel pubblico il gusto della tragedia e del dramma. L’alpinismo diverrà sinonimo di pericolo, di rischio suicida, di sfida alla morte, di tragedia e di dramma. Il pubblico crederà a questo e non comprenderà mai che l’alpinismo è tutto il contrario, anche se qualche volta deve accettare e subire i propri aspetti negativi.

 

L’ultimo periodo nella breve vita di Comici è caratterizzato da una serie di imprese compiute con l’amico vicentino Severino Casara, il quale poi ne canterà le gesta in molti libri.

 

L’ultima impresa è quasi il “canto del cigno” e sfiora la perfezione per l’eleganza dell’arrampicata e il valore estetico del tracciato. Su un torrione che si eleva sui fianchi del Sasso Lungo, detto Il Salame per la sua forma cilindrica, Comici traccia una via non lunga (350 metri) ma splendida e difficile, un vero e proprio trionfo dell’arrampicata libera su quella artificiale. Senza voler fare della retorica, proprio l’ultima impresa forse vuole fissare il suo primo e grandissimo amore per l’arrampicata libera pura, esposta, elegante e difficile, dove il chiodo interviene solo rarissimamente.

 

1940 - Mentre stava esercitandosi nella palestra di Vallunga, in Val Gardena, in compagnia di amici, scendendo in corda doppia, Emilio Comici si uccise per la rottura di un cordino

 

Ideò per primo le scuole d’alpinismo sezionali, infatti la prima scuola italiana d’alpinismo fu fondata a Trieste proprio da Emilio Comici ed ebbe nome “Scuola Val Rosandra”, trasformatasi oggi in “Scuola Emilio Comici”.

 

Lasciò la vita cittadina per dedicarsi completamente alla montagna e divenne guida alpina a Cortina e poi in Val Gardena

 

1941 - 24 agosto. Bruno Detassis, Sandro Disertori, Rita Graffer, Cesare Scotoni e W. Sgorbati, salirono un altissimo pulpito sporgente a Sud-Ovest del Campanile Alto, sopra il “Sentiero del Brentei”, per la Parete Ovest di questo Torrione senza nome, che dedicarono alla memoria del grande arrampicatore triestino Emilio Comici chiamandolo Torrione Comici. Fu un’arrampicata divertente e di soddisfazione. La parete è alta 250 m. con difficoltà di V°+. – Catena degli SfulminiGruppo di BrentaDolomiti di Brenta.

 

1949Armando Aste “entra in scena” ripetendo la via normale del Campanile Basso di Brenta. Fu il terzo, dopo Paul Preuss e Emilio Comici, a percorrere in solitaria la via Preuss alla parete Est.

Armando Manfredi, un calzolaio di Rovereto, che aveva fatto il soldato negli alpini e aveva conosciuto Vittorio Ratti, il famoso compagno di Riccardo Cassin, intuisce la passione di Armando Aste, e gli regala una corda di canapa di 30 metri portata via dalla naja. Ad Armando Aste confeziona per questa occasione anche il suo primo paio di pedule di pezza, con la suola di feltro. E’ così che inizia la carriera Armando Aste. Carriera che lo vede salire innumerevoli cime, dove da ciascuna porta alla sua bella un piccolo fiore. Sarà con enorme sorpresa che il giorno del matrimonio riceverà dalla futura moglie un album contenente tutti i fiori, con data e luogo di raccolta.

Dopo la normale al Campanile Basso, Armando Aste prende il volo: la sua straordinaria sensibilità a interpretare la roccia e l'arrampicata lo portano in breve tempo a confrontarsi con le vie classiche più famose di allora. - Catena degli SfulminiGruppo di BrentaDolomiti di Brenta.

 

 

L'ULTIMO TESTIMONE

Tommaso Giorgi è l'ultimo testimone rimasto in vita (il riferimento è a1l'anno 1995)] dei giovani che il 19 ottobre del `40, giorno della morte di Comici, si trovavano con lui in Vallunga e, oltre a cio, è uno dei pochi che, negli ultimi mesi della sua vita a Selva di Val Gardena, gli fu accanto quotidianamente. Giorgi era allora un giovane funzionario comunale e fu proprio in Comune, dopo la nomina di Comici a commissario prefettizio, che tra i due s'instaurò un rapporto d'amicizia. Un legame nel quale la montagna ebbe parte esigua, e che si rinsaldò per il fatto che Comici alloggiò alcuni mesi in una stanza dell'appartamento di Giorgi; una sistemazione provvisoria in attesa dell'acquisto di un terreno a Selva, paese dove si era risolto a metter su casa. Lo stesso Giorgi racconta dei sopralluoghi fatti insieme in alcune vecchie proprietà dove avrebbe potuto stabilirsi definitivamente.

Oggi, a più di mezzo secolo di distanza, il valore testimoniale del ritratto fatto da Giorgi, che tuttora vive a Selva di Val Gardena in meritata quiescenza dopo quarant'anni di impiego nell'amministrazione comunale, ha il pregio di delineare la figura di un Comici scevra da epiteti ridondanti: un uomo, come tanti altri, benché dotato di tensioni non comuni, che era giunto senza certezze materiali all'età del "dunque". L'incontro tra i due non ha nulla di straordinario eppure ha il sapore dell'amicizia stretta tra due uomini che procedono in direzioni diverse, ma che ciò nonostante si sentono vicini, disposti a condividere il peso delle scelte e decisioni che incalzano e desiderosi di vivere fino in fondo i giorni di una stagione per entrambi cruciale.

Testo tratto dall'edizione a cura di Elena Marco di Alpinismo Eroico di Emilio Comici, Vivalda editore, 1998

19 ottobre del `40, lo ricordo come fosse ieri, fu un meraviglioso sabato di sole. Al mattino restammo in Comune per registrare alcuni atti; l'ultimo che Comici firmò fu un atto di nascita. Poi, attorno alle 12, ci trovammo al solito posto, al bar dello Stella, dove tardammo un po'. Mentre noi eravamo impazienti, pronti a divertirci e a lanciarci in una corsa per i prati, Comici invece, come capitava spesso, era pensieroso. Sapevo che era innamorato di una ragazza bionda, una triestina credo, ma non era ricambiato; a causa di ciò, per lenire questa fitta al cuore, ma non solo per ovviare allo sconforto, aveva chiesto di partire volontario per il fronte. La sua domanda però non venne accettata e il rifiuto finì per incupirlo ancor più.Emilio Comici con alcune allieve [arch. Rauber]

Ma quel sabato, al bar, la ragazza che era con noi riuscì a convincere Comici e a spingerlo, nonostante non ne avesse alcuna voglia, ad aggregarsi alla compagnia. Il programma era di andare a prendere la chitarra e di trovare un prato dove mettersi a cantare e suonare. Ci dirigemmo allora verso la Vallunga dove c'era, tra l'altro, la parete frequentata abitualmente da istruttori e allievi della scuola di roccia. Tra una canzone e l'altra, alcune intonate dallo stesso Comici che a orecchio musicale non era secondo a nessuno, decidemmo di arrampicare. La compagnia era composta da me, dal dottor Carlo Fissore, medico comunale, da Gianni Mohor, giovane guida alpinistica e dalla mia futura cognata, Lina Demetz. Si decise di dividere il gruppo in due cordate: la prima composta da me, il medico e la guida; l'altra, da Comici e Lina Demetz. Mentre loro due avrebbero dovuto aspettarci su una cengia percorrendo un sentiero, noi avremmo dovuto cimentarci sulla parete. A dire il vero eravamo un po' duretti a salire: io non ero un gran montanaro, il dottore nemmeno, e solo Mohor, che era una guida, se la cavava bene.

Ad un certo punto, non vedendoci arrivare, Comici decise di vedere che cosa stavamo combinando: prese un cordino che aveva legato attorno alla vita, l'assicurò a una cengetta che si trovava poco più sopra e sì lascio cadere nel vuoto. In quell'istante il cordino si spezzò, sentii l'urlo della Demetz e volgendomi verso la valle vidi Comici, andare giù, giù, di piatto, senza muoversi, senza gridare. Precipitato sul prato sottostante, si rialzò di scatto, quasi fosse una palla, facendomi tirare un sospiro di sollievo convinto com'ero che non s'era fatto male. Un istante dopo però ricadde di nuovo a terra, questa volta senza più rialzarsi. Fissore scese rapidamente dalla parete e chiamò aiuto sparando un colpo di fucile, fucile che aveva lasciato sul prato con l'intenzione, prima del calar del sole, di andare a caccia. Sul posto si precipitarono Antonio Mussner, una guida che stava lavorando la terra poco distante, e un suo amico. Io, tremante, ero rimasto in parete, incapace tanto di salire quanto di scendere e fu da là che sentii le parole del medico: non c'era più niente da fare, un masso, uno dei pochi in quel prato verde, gli aveva fracassato la testa, uccidendolo. Comici era morto.

Quelle parole mi paralizzarono ulteriormente e dovettero venire a prendermi per riuscire a staccarmiComici mentre effettua la traversata dalla Torre Leo allla Torre del Diavolo (Cadini di Misurina) [arch. Soc. Alp. delle Giulie] da quella parete.

Insieme con gli altri, non ci rimase altro da fare che trasportare il corpo a Selva: non c'erano barelle e così pensammo di utilizzare una vecchia Balilla di un operaio che lavorava nella valle. Posammo il corpo sul tetto dell'automobile e, a passo d'uomo, ci dirigemmo verso il Comune. Qui ci si adoperò per allestire in fretta una camera ardente che venne posta in corridoio. Vegliammo a turno per tre giorni e tre notti e fu proprio in quelle lunghe ore che accadde un fatto strano: una mano sconosciuta posò sul feretro il berretto nero con l'aquila del podestà. Fu un gesto che mi colpì perché mi parve una sorta di ricompensa per ciò che in vita non gli era stato concesso. Il funerale si svolse mercoledì, tre giorni dopo l'incidente, per consentire alle autorità e ai parenti di raggiungere Selva.

Il corteo funebre mosse dal Comune ma non si diresse direttamente al cimitero che si trovava a pochi metri di distanza e percorse invece tutta Selva: i sentieri si riempirono di gente e di corone di fiori, oltre cinquanta, credo, e quando fummo in cimitero il gruppo degli amici triestini cantò Stelutis alpinis. Una volta conclusa la cerimonia ciascuno di noi tornò sui suoi passi. Io me ne tornai in casa ed entrato nella sua stanza trovai le solite carte sparse sul letto. Erano le bozze della conferenza che avrebbe dovuto tenere di lì a pochi giorni a Vicenza, o da quelle parti. Vennero a ritirare quelle carte e tutto il resto in seguito. Mi sembrò che quel giorno dovesse finire tutto; invece abbiamo continuato, abbiamo continuato a vivere, anche se con l'amarezza che uno di noi se n'era andato in quel modo per te niente musichetta (cambia browser!!!)

Testo raccolto da Elena Marco (op. cit.)