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Hermann Buhl (1924 – 1957)

 

(Innsbruck 1924 – Chogolisa 1957) Hermann Buhl è uno dei più famosi alpinisti austriaci del dopoguerra; divenne noto per le sue ascensioni invernali (prima della via Soldà alla parete Sudovest di Punta Penia, (Marmolada) con Kuno Reiner) e per le difficili scalate in solitaria (via Fox-Stenico alla Cima d’Ambiez).

Arrampicò nelle Dolomiti nei primi anni Cinquanta, aprendo fra l’altro, nel 1950, una via sulla parete Ovest della Cima Canali (Pale di San Martino) e, nel 1954, una sulla parete Sud del Piz Ciavazes (Gruppo del Sella).

Hermann Buhl fu uno dei precursori dello «stile leggero» delle spedizioni himalayane.

Nel 1953 raggiunse la cima del Nanga Parbat da solo in prima ascensione e nel 1957, con Kurt Diemberger, toccò la cima di un altro ottomila, il Broad Peak.

 Morì per il crollo di una cornice mentre scendeva nella nebbia dal Chogolisa.

Scrisse un’autobiografia: Achttausender drüber und drunter (1956, trad. ital. E’ buio sul ghiacciaio, Torino, SEI, 1960).

 

Uno dei migliori personaggi dell’alpinismo fino ai giorni nostri e senza dubbio il tirolese Hermann Buhl.

Le imprese di questo scalatore sono straordinarie.

In cordata o da solo ha vinto, in 10 anni di attività, le pareti più difficili delle Alpi:

Dall’Eiger alle Jorasses, dalle Cime di Lavaredo al Badile non c’è sesto grado che gli abbia resistito.

Per la sua forza d’animo, per la tecnica e per l’abilità leggendaria fu considerato un maestro da tutti gli alpinisti europei.

Forse il tempo offuscherà il ricordo delle sue grandi scalate alpine ma non potrà mai cancellare la sua indimenticabile impresa suprema: la vittoria solitaria sul Nanga Parbat, uno dei 14 ottomila della terra, che pone Hermann Buhl fra le grandi figure storiche dell’ardimento umano.

 

 

 


1947 - Hermann Buhl realizza la prima solitaria sul Schusselkarspitze per la via Fiechtl-Herzog.

 

1949 - 10 agosto. Hermann Buhl e Martin Schliessler salirono per la parete Nord dell’Aiguille Blanche de Peutérey (via originale). Magnifica combinazione, che offre il modo più elegante per salire la Cresta di Peutérey volendo tenersi quasi sempre su neve-ghiaccio, proseguendo poi fino alla vetta del Monte Bianco. La bella via sale la parete al centro e il superamento del grande seracco può essere un'incognita. Itinerario classico su ghiaccio, molto vario ed elegante; nella parte inferiore è però esposto alla caduta di sassi e ghiaccio. Dislivello 750 m. Difficoltà D+. – Contrafforti Italiani - Massiccio del Monte Bianco.

 

1950 - Hermann Buhl apre in solitaria una stupenda via sulla parete Ovest della Cima Canali. (Pale di San Martino).

 

1950 - Hermann Buhl e Kuno Rainer, realizzano in invernale sulle Dolomiti, la via Comici sulla Nord della Cima Ovest della Grande di Lavaredo e la via Soldà sulla parete Sud-Ovest della Marmolada, una magnifica impresa di eccezionale valore tecnico, compiuta dai due scalatori austriaci di indiscusso valore.

Sicuramente la via Soldà sulla parete Sud-Ovest della Marmolada è più difficile e problematica della via Comici sulla Nord della Grande di Lavaredo, in quanto l’arrampicata si svolge lungo camini molto incassati e profondi, intasati di neve e ricolmi di ghiaccio traslucido.

 

1950 - L’impresa compiuta da Hermann Buhl è interessante. Per vincere una scommessa di 200 franchi svizzeri, Buhl partì dal rifugio Boval e portò a termine l’ascensione e la discesa del Piz Bernina 4049 m. in sei ore. Egli discese i 500 metri di cresta innevata del Biancograt in quindici minuti sbalorditivi e tornò al rifugio esattamente nel tempo programmato.

 

1950 - Hermann Buhl in solo due ore in solitaria raggiunge la cresta Nord della Jungfrau (la Wenger Jungfrau 4089 m.).

 

1950 - 28/29 luglio. Le guide Hermann Buhl e Kuno Rainer compiono la 5° ripetizione della parete Nord, Sperone Walker, via Cassin (1200 m, VI° e A1), della Punta Walker sulle Grandes Jorasses. Dopo di che, le ripetizioni si sono moltiplicate ed hanno ormai superato il centinaio: con questa incresciosa conseguenza, che lo sperone ha ormai subito «una chiodatura eccessiva, e non è pertanto più quello che era.». - Gruppo delle Grandes Jorasses - Massiccio del Monte Bianco.

 

1951 – 6 agosto. Hermann Buhl e compagni realizzano la 1° ripetizione della via Cristina per lo Spigolo Nord-ovest dello Spallone al Campanile Basso. - Catena degli SfulminiGruppo di BrentaDolomiti di Brenta.

 

1952 - luglio. L’austriaco Hermann Buhl è l’artefice della prima ascensione solitaria alla Nord-est del Pizzo Badile via Cassin in sole quattro ore e mezza ha ragione dell’immane lastronata. Da allora la via è stata più volte ripetuta in solitaria.

 

1952 - Hermann Buhl in solitaria sale il Dietro Sud del Schusselkarspitze.

 

1952 - 20 luglio. Hermann Buhl effettua la 1° solitaria della via Fox-Stenico alla Cima d’Ambiez  per la parete Sud-Est. - Catena d’AmbiezGruppo di BrentaDolomiti di Brenta.

 

1953 - Hermann Buhl sale sempre in solitaria la Watzmann per la parete Nord realizzando anche la Prima invernale.

 

1953 - 3 luglio. Un “piccolo uomo”, dall’aspetto un po’ smarrito e frastornato, conquista il Nanga Parbat, la montagna nuda, da solo, senza alcun ausilio tecnico, senza bombole d’ossigeno, senza l’aiuto dei portatori.

E’ Hermann Buhl, uno dei più grandi protagonisti dell’alpinismo del dopo guerra. Nelle sue riflessioni dopo l’impresa, di fronte alle critiche mosse dagli ambienti invidiosi, davanti all’incomprensione degli stessi amici, il suo primo pensiero va a Mummery: “Mummery. E’ il primo che debbo ragguagliare, cui debbo rendere conto. Posso ben guardarlo negli occhi, stare in piedi dinanzi a lui mentre gli annuncio: non ho conquistato il Nanga Parbat (m 8126) servendomi dei mezzi tecnici moderni, ma assolutamente come voi intendevate, “by fair means”, con mezzi leali, con le sole mie forze”.

 

1954 - Hermann Buhl apre una via sulla parete Sud del Piz Ciavazes (Gruppo del Sella).

 

1956 - Sempre in solitaria sale Lalidererspitze per la via Auckenthaler.

 

1956 - E ancora, in solitaria sale Aiguille du Moine per la via Contamine.

 

1956 - 19 agosto. In un ora e 20 minuti Hermann Buhl effettua la 2° solitaria del Canalone Nord-Est (via classica) del Mont Blanc du Tacul, uscendo in alto sulla destra. - Gruppo Mont Blanc du Tacul - Massiccio del Monte Bianco.

 

1957 - Sempre fedele al suo stile torna in Karakorùm con pochi compagni (il fortissimo ghiacciatore austriaco Kurt Diemberger, salitore di due Ottomila, uno dei migliori alpinisti del dopoguerra, Marcus Schmuck e Fritz Wintersteller) e salì splendidamente in tecnica alpina un altro Ottomila, il Broad Peak. (8047 m.) (E’ il 9 giugno). Sia l’idea che la realizzazione erano di Hermann Buhl.

 

1957 - Morì per la caduta di una cresta di neve sull’altissimo Chogolisa nel Karakorùm. (aveva solo 33 anni

 

Da: La storia dell’alpinismo

volume 2 - pag. 480/483.

di: Gian Piero Motti

Hermann Buhl, l’uomo dell’avventura.

 

Parlare di Hermann Buhl richiederebbe molto più spazio di quanto ci sia concesso.

Egli è uno di quei personaggi che ormai fanno parte della leggenda.

Poverissimo, fin da ragazzino aveva scelto l’arrampicata e l’alpinismo come modo di vivere e rapidamente si era imposto negli ambienti alpinistici austriaci come uno dei migliori arrampicatori.

Fisicamente non molto dotato, ma forte di una volontà degna di un Heckmair, Buhl seppe dar prova durante la sua carriera alpinistica di una tenacia, di una coerenza, di una fede e di una determinazione che lo pongono ad essere considerato come uno dei personaggi più significativi di tutta la storia dell’alpinismo.

Egli non fu mai un professionista e nemmeno usò le sue imprese a fini commerciali.

Piuttosto fu sempre una specie di “bohémien”, sempre in bolletta, sempre alla ricerca di qualche lavoro provvisorio con cui tirare avanti.

La figura di Buhl ha tutta una sua carica umana, che a volte rasenta la commozione.

Buhl fu un alpinista completo: amava tanto l’arrampicata su roccia quanto quella su ghiaccio, tanto le ascensioni invernali, quanto quelle solitarie.

Infatti praticamente effettuò la ripetizione di tutte le grandi vie aperte sulle Dolomiti e sulle Alpi Occidentali prima e dopo la guerra.

Il suo stile fantastico gli permetteva di passare in tempi incredibilmente veloci e di salire a volte in arrampicata libera dove altri erano passati in artificiale!

Non era contrario ai mezzi artificiali, ma dava però all’arrampicata libera il ruolo preponderante e si sforzava di ridurre al minimo l’uso dei chiodi.

Buhl era l’uomo dell’avventura.

Con ingenuità quasi infantile seguì sempre il filone dell’avventura e sempre si tenne lontano da tutti gli armeggi volti a legare l’alpinismo agli interessi commerciali.

E’ il Buhl che se ne parte da Landeck in sella alla sua bicicletta e pedala fino a Bondo, dopo aver doppiato il Passo del Maloja! Poi se ne sale tutto solo fin sotto la parete Nord-Est del Pizzo Badile e tutto solo in cinque ore compie la salita della via Cassin destando l’incredulità e l’entusiasmo di alcuni alpinisti italiani incontrati sulla vetta.Questi lo vogliono trasportare a Lecco, quasi in trionfo, per festeggiarlo. Ma lui non può, per motivi di lavoro. Allora tutto solo se ne discende per lo Spigolo Nord, poi ancora a Bondo, dove riprende la bicicletta e ricomincia a pedalare per raggiungere Landeck, in Tirolo, e per ritrovarsi a bagno in un torrente, vinto dal sonno e dalla fatica.

E’ il Buhl, che come rapito da un raggio mistico, se ne parte ancora tutto solo dall’ultimo campo posto sulle pendici del Nanga Parbat e, tutto solo, seguendo un cammino di luce, come trascinato da un’energia invisibile, sale fino alla vetta della “montagna nuda”, senza bombole d’ossigeno, senza alcun aiuto, con un’attrezzatura da bivacco del tutto sommaria.

Ed eccolo nella discesa vagare, allucinato e sfinito, lungo le immense distese bianche, ancor vivo, uno dei pochi a cui la grande madre himalayana abbia concesso tanto.

E’ il Buhl che con le dita dei piedi amputate ritorna ad arrampicare con lo stesso entusiasmo di prima, è il Buhl che passa vittorioso da solo ed in cordata su tutte le grandi pareti alpine.

E’ il Buhl che, precorrendo i tempi e la storia, con tre soli amici se ne parte su un camion alla volta del Karakorùm per salire in stile alpino un altro ottomila, il Broad Peak.

E’ il Buhl che ancora una volta da solo si incammina alla volta della vetta, già raggiunta dagli amici, che stupefatti e commossi lo incontrano lungo la discesa. Ma dotato di una forza incrollabile, eccolo salire ancora alla vetta, con al fianco l’amico Kurt Diemberger, il quale colpito da tanta fede e tanta tenacia, decide egli stesso di ritornare in vetta per essegli accanto.

Ma poco dopo, ancora con l’amico Kurt che lo segue a pochi metri slegato, Buhl a causa del crollo di una cornice, scompare per sempre sulle pendici del Chogolisa.

Il valore di Buhl va ben oltre la prestazione tecnica delle sue realizzazioni, ma testimonia la capacità umana di lottare, di soffrire, di fronteggiare ogni tipo di ostacolo, a cominciare dalle difficoltà morali e psicologiche, sempre conservando umiltà e modestia.

Il suo nome, anche sulle Dolomiti, è legato ad imprese di polso: la prima invernale della via Soldà sulla Marmolada, la solitaria sulla parete della Cima d’Ambiez, la magnifica via aperta sulla Cima Canali nelle Pale di San Martino, capolavoro di eleganza in arrampicata libera.

 


UN INCONTRO MEMORABILE

 

Da: La rivista del Club Alpino Italiano

Luglio-Agosto 2003 - pag. 14/15.

di: Teresio Valsesia

 

 “E’ buio sul ghiacciaio”, di Hermann Buhl, prima edizione (1961) della Società Editrice Internazionale, con la traduzione di Irene Affentranger. Il capitolo “Parete Nord-Est del Badile”, pagina 184.

“Alle 7 di sera giungo al rifugio Sciora. Vi si trovano solo due persone: oltre al custode c’è un altro ospite, un milanese. Prudentemente taccio del mio progetto e alle loro domande rispondo che ho intenzione di scalare lo spigolo del Badile. Ma questo ai due sembra già inconcepibile. Osservano: “La prima da solo?” Se mai sapessero…”.

L’alpinista milanese era Oliviero Elli, il cui diario, preciso e analitico, dedica venti pagine a questo stesso wek end.

Il suo titolo è evidentemente diverso: “Ascensione solitaria alla parete NNO del Pizzo Cengalo frustrata dal maltempo”. La data: 5-6-7-8 Luglio 1952.

Oliviero Elli ha già compiuto diverse importanti ascensioni in Grigna, sulle Retiche e sul Rosa, fra cui la prima solitaria della parete Est del Colle Zumstein, che a Macugnaga e ad Alagna chiamano Colle del Papa perché la prima traversata, nel 1889, porta la firma di Achille Ratti, che divenne Papa Pio XI.

Nel 1953 Elli ha fatto anche la prima invernale sulla Est del Rosa con Emilio Amoroso.

Ma ritorniamo al tramonto di quel 5 Luglio 1952, alla capanna Sciora, dove l’alpinista milanese era arrivato partendo in treno, alle 6.55, da Milano, per Chiavenna e poi in corriera per Castasegna e Bondo.

“Mentre riordino i miei effetti – scrive Oliviero Elli – arriva un altro alpinista solitario. Parla tedesco e dice di voler fare lo Spigolo Nord del Badile da solo. Credendolo uno svizzero, strabilio e non so cosa pensare. Solo quando mi dice di essere di Innsbruck, tutto si fa chiaro e a bruciapelo gli chiedo: “Buhl o Rainer?”. “Buhl!”. Dunque mi trovo davanti all’alpinista austriaco che anche dai più forti sestogradisti è ritenuto un fuoriclasse!”.

I due fanno subito amicizia anche perché Elli parla perfettamente il tedesco.

Buhl racconta di essere venuto da Innsbruck a Promontogno in bicicletta (140 Km!), di avere l’intenzione di fare lo Spigolo del Badile in salita e discesa, e di ritornare a casa sempre in bicicletta per riprendere il lavoro lunedì.

“Apprendendo la mia intenzione di fare da solo la Nord del Cengalo, dopo un attimo di riflessione mi spara la sua proposta che è come un fulmine a ciel sereno: “Andiamo insieme a fare la Nord-Est del Badile!”. Non oso credere alle mie orecchie e per un attimo temo di avere frainteso. Ma la proposta è quella e già mi vedo alle prese con la terribile via Cassin. No. Non è possibile…e il sogno è di breve durata. Faccio notare a Buhl che non sono all’altezza di una simile impresa e che d’altronde anche la nostra attrezzatura è inadeguata (abbiamo dieci chiodi in due, pochi cordini, una manila da 30 e una “otto” pure da 30 metri). Buhl insiste ma finisce per convincersi, prende il libro dei visitatori, vi scrive il proprio nome e “Badile-Nordkante”, e se ne va a dormire. Poco dopo lo seguo anch’io”.

L’indomani è domenica (6 Luglio 1952). Elli si sveglia verso le 5.30. Buhl è partito da tempo e il custode gli offre il binocolo affinché ne possa seguire l’arrampicata lungo lo spigolo. Poi parte per una ricognizione sul Cengalo. E ripetutamente cerca di individuare Buhl, mai pensando di cercarlo sulla parete.

Dopo aver risalito la prima parte della Nord-Nord-Ovest del Cengalo, Elli rientra al rifugio a mezzogiorno incontrando un gruppo del CAI di Chiavenna. Il custode gli comunica di non avere più visto Buhl. Anche lui binocola gran parte del pomeriggio. Invano. “Che ne sarà di Buhl?”.

Le pagine del grande alpinista tirolese sulla solitaria alla Nord-Est del Badile sono tra le più note della letteratura alpina.

Svegliandosi in ritardo rispetto al previsto, alle 6 è all’attacco della parete e alle 10,30 sulla vetta, accolto da “una schiera di giovani italiani” salita dalla Normale, che esprimono “entusiasmo e stupore”. Si presentano: Mauri, Ratti…

“A questo punto – scrive Buhl – tendo l’orecchio. Questi nomi mi suonano familiari, appartengono all’élite dell’alpinismo italiano. Esprimono la loro approvazione con tutta la foga del temperamento meridionale. Le parole “grande impresa” corrono sulle loro labbra. La nostra conversazione è molto amichevole. Un’ora dura il colloquio in sì piacevole compagnia mentre a mala pena il tempo di godermi lo stupendo panorama. Ci giunge alle orecchie un suono di campane: è mezzogiorno. I miei nuovi amici vogliono assolutamente condurmi con loro fino a Lecco, ma debbo spiegare che in ogni caso sono costretto a ridiscendere a Promontogno ove ho lasciato la bicicletta. Inoltre domani mattina dovrò essere di ritorno a Innsbruck. Il commiato è affettuoso. Gli amici di Lecco scendono verso sud mentre il mio cammino porta a nord, lungo lo spigolo del Badile fino all’attacco della parete”.

Anche l’epilogo dell’exploit di Buhl è noto. Alle 8 di sera è sul Maloja. Poi altri 140 chilometri di “stradone”. Alle 2 passa la frontiera fra la Svizzera e l’Austria “continuando a pedalare come in sogno”. Poi, alle 4,30, la caduta nell’Inn, dove si risveglia afferrando in extremis la bicicletta e il sacco che fuggivano con la corrente. Prosegue con la bici in spalla fino a quando una corriera lo porta a Landeck e a casa per il lavoro. Tutto a posto, salvo un piccolo raffreddore.

 


SOLO

Hermann Buhl, quindici anni dopo.

 

Da: ALP Alpinismo Monografie

Numero 187 Novembre 2000

pag. 53/56.

Testo di: Mario Frascione.

 

1952: alle quattro di un mattino di luglio

IL VENTOTTENNE AUSTRIACO HERMANN

Corre sulla sua bicicletta in direzione dell’Italia.

SARA’ LA PRIMA SOLITARIA DELLA VIA CASSIN:

Poi, di nuovo in sella,

IL FOLLE RITORNO CON UN VOLO FINALE

da spaccarsi la testa, giù nelle acque dell’Inn.

E’ IL SEGNALE: CASA NON E’ LONTANA.

 

Sono passati quindici anni dal passaggio di Cassin, Esposito e Ratti.

Quindici anni che forse valgono il doppio perché a cavallo di una guerra che ha cancellato illusioni e messo a ferro e fuoco l’Europa e il mondo, un conflitto che ha illuminato di una luce sinistra l’agire umano.

Poi sono tornate la pace e la voglia di ricominciare a vivere.

Tanto che nel 1952 un uomo può addirittura pensare di percorrere con successo la linea spezzata tracciata dai lecchesi sulla parete Nord-Est del Pizzo Badile, che porta dal ghiacciaio alla vetta.

La parete è nei piani di un ventottenne scalatore austriaco, forte e assai determinato.

A corto di soldi, ma dotato di una tenacia formidabile e di un coraggio notevole, Hermann Buhl ha già dimostrato di saper fare a pugni con le difficoltà della roccia e della vita uscendone a testa alta. Un infanzia dura ne ha fatto un giovane sensibile, catturato dal fascino profondo dell’arrampicata sulle pareti del Karwendelgebirge e del Wetterstein.

Le prime avventurose scalate con i compagni hanno rafforzato in lui il desiderio e la consapevolezza di potersi affermare come alpinista e arrampicatore.

Poi sono arrivati successi importanti, fino alla prima invernale alla Sud-Ovest della Marmolada, la parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo, le realizzazioni nel gruppo del Monte Bianco, tra cui lo Sperone Walker alle Grandes Jorasses.

 

1952: alle quattro di un mattino di Luglio Hermann corre sulla sua bicicletta In direzione dell’Italia.

Falliti i tentativi di combinare la salita in tempi brevi con gli amici più intimi, pedala da solo verso il proprio destino.

Ha ancora addosso la stanchezza della notte impegnata nella ricerca di un disperso sulla Nordkette, vicino a Innsbruck, ma sa che ora deve solo concentrarsi sul suo obiettivo, quella splendida parete vista su un giornale francese di alpinismo, che tante discussioni ha acceso con i suoi compagni di scalata e i soci dell’Alpenverein.

La frontiera svizzera è alle spalle. Raggiunge il passo del Maloja, con un caldo terribile che brucia la gola e una luce che impedisce di tenere gli occhi aperti. Ecco finalmente i tornanti che scendono in Val Bregaglia, fino a Promontogno. Risalendo con passo deciso i sentieri della Val Bondasca il panorama mozza il fiato: la valle è chiusa dal gruppo di Sciora, mentre sulla destra stanno le poderose fortificazioni del Cengalo e del Badile. Il sole è già basso all’orizzonte quando l’austriaco varca la soglia del rifugio Sciora: è passato un giorno.

A non svelare al custode i suoi piani, sta attento Buhl.

Quando il cielo inizia a schiarire con i colori dell’alba attacca la via superando di slancio i primi 200 metri. E’ un inizio trionfale, ma la grande parete che si perde sopra la sua testa è un labirinto di placche e strapiombi lanciato in un tuffo capovolto verso il cielo senza lasciare spazio alle illusioni.

Il “piccolo uomo” sulla grande parete affronta il diedro di trenta metri e le fessure insabbiate da una frana recente; la corda legata in vita penzola nel vuoto senza impedire i suoi movimenti.

Ora deve evitare un insidioso nevaio appoggiato su placche. I gesti sono immersi in un silenzio assoluto. La fredda foschia del mattino preme mentre affronta il secondo diedro: VI° grado.

Alle 8 si capisce che sarà una bella giornata: il tempo tiene, e Buhl è a metà parete. Riparte senza permettersi di interrompere il flusso della concentrazione: l’adrenalina torna a scorrere abbondante su uno strapiombo friabile che sbarra la salita. Un moschettone Allain è l’unico segno di passaggio umano. Poi per trovare un varco, bisogna traversare e mentre le braccia si acciaiano la mente corre ai tanti enigmi verticali risolti con i compagni di molte altre scalate, Luis Vigl o Kuno Rainer. Adesso è bello pensare a loro, presenze amiche che lo incitano a non mollare, a compiere ogni gesto con precisione estrema. Un passo, un altro passo, un altro ancora senza pensare all’abisso. Arriva al colatoio e al secondo bivacco Cassin.

Quanto tempo è passato?.

I punti di vista lungo la parete cambiano ogni 20 metri, come le forme di un caleidoscopio di granito.

La salita è un buco nel tempo, uno spazio curvo che segue le geometrie non euclidee della propria introspezione, l’andamento del dialogo con gli appigli e le prospettive illogiche della pietra che sembra ricacciarlo verso il basso. Il concatenamento dei movimenti è un accordo inedito, compreso tra il primo passo dell’attacco e le voci degli italiani ormai in vista della cima.

Poi l’uscita, con il gesto di raccogliere la corda e di sfilarsi la camicia per farsi accarezzare le spalle dal sole, chiudendo gli occhi e lasciandosi naufragare in un sentimento di realizzazione profonda.

Sono le 10,30 del 6 Luglio 1952, il sole non è ancora allo zenith.

In vetta i due italiani si presentano: sono Carlo Mauri e Vittorio Ratti.

Le mani spelate e indurite si stringono.

L’entusiasmo sgorga dopo essere stato a lungo compresso dalla concentrazione.

Ne nasce un dialogo in una lingua mista, inesistente, con cui confrontare ricordi, idee e progetti di tante salite, di tante montagne.

Il pensiero è più veloce delle parole e corre oltre le cime del panorama, fino a sfiorare le montagne più alte del mondo. Chissà.

Un colpo di vento più freddo degli altri ricorda che è ora di tornare nel mondo.

Dopo la discesa lungo lo Spigolo Nord che affonda nella Val Bondasca torna a inforcare la bicicletta, che per procedere sulla strada di casa gli fa sputare ogni metro di salita a caro prezzo.

Ormai Buhl sprofonda nella stanchezza e nella dimenticanza, spera solo di potersi riposare, spera che chi è rimasto a casa capisca senza domandare.

Non resta che pedalare su questa dura salita, con le gambe impastate, combattendo gli assalti del sonno.

Comincia la discesa, ma bisogna concentrarsi ancora: tenere il manubrio in direzione del nastro scuro della strada, lottare con le palpebre che si chiudono. Dopo un tempo incalcolabile arriva un volo da spaccarsi la testa, giù nelle acque dell’Inn: è il segnale.

Casa non è lontana.

 


 

IL MITO DI HERMANN BUHL

LE TRACCE DI HERMANN

di Alessandro Gogna

 

(pubblicato su OUTDOOR MONTEBIANCO, novembre '98 )

Ci sono state stagioni in cui per settimane intere scalavo nelle Dolomiti, sulle tracce di chi mi aveva preceduto. Il gruppo di Sella non era tra i miei preferiti, ma spesso per comodità era la meta della giornata. Un giorno (1983) salii la via di Hermann Buhl al Piz Ciavazes: stavo ripubblicando in lingua italiana il suo libro, È buio sul ghiacciaio.

Verticale, difficile ed esposto, quel rossiccio diedro fessurato che evita la famosa traversata Micheluzzi non si differenzia di molto, a prima vista, da tante altre belle vie dolomitiche. Eppure, a gambe aperte in un vuoto da leggenda, mi sembrava di essere leggero, di volare quasi verso l'alto: anche il tracciato era lieve, senza peso, l'opera d'arte di un maestro che di pesante non cucinò mai nulla.

Ripetere le sue vie e leggere il suo libro sono cose sorprendentemente simili. Un'autobiografia quasi completa delle proprie imprese alpinistiche identifica la sostanza di quanto si è fatto in montagna ed in quel libro è condensata, scarna e semplice, tutta la storia di Hermann Buhl. Ma i racconti non possono da soli riassumere ciò che un uomo ha rappresentato e rappresenta per centinaia di migliaia di alpinisti. Occorre anche capirne lo stile, e questo si comprende bene soltanto ripetendo le sue vie, gli itinerari dei suoi exploit.

Certamente oggi Buhl è un mito: leggendarie furono le sue imprese, sovrumana la conquista del Nanga Parbat, epica la sua scomparsa nei ghiacci del Karakorum. C'è stata sempre necessità di miti e di eroi, soprattutto di figure in cui credere, a dispetto di chi vorrebbe un'appiattita ed uniforme classifica in cui figurino un primo ed un ultimo.

E pensare che Hermann non aveva per nulla il fisico dell'eroe! Ricordo che negli anni '60, ben lungi dall'internazionalità arrampicatoria di oggi, negli ambienti alpinistici italiani si parlava molto dei "tedeschi". Questi erano citati di solito quando si doveva portare un esempio di particolare follia. Si sottolineava il numero di disgrazie che capitavano loro, in questo secondi solo ai giapponesi, perché non erano prudenti, perché lammeriani-nietzschiani, perché volevano sempre continuare a dispetto di ogni elementare norma. Alti, biondi, forti, questi teutonici energumeni popolavano l'universo della mia mente ragazzina lasciando un poco di spazio solo ai grandi nostrani, tipo Walter Bonatti, Cesare Maestri, ecc. Quando cominciai a saperne di più, mi accorsi che il più grande era mingherlino, nero, per nulla forte, apparentemente per nulla tedesco o austriaco; che Hermann era sulla bocca di tutti per come era vissuto e per come era morto. La sua semplicità parlò immediatamente anche a me che non l'avevo mai visto di persona: le sue avventure ed i suoi racconti mi affascinarono, sostituirono i pregiudizi sui tedeschi e mica tedeschi, sgominarono altre figure imponendosi come capolavori, come vera forza dell'arte e della volontà.

Ci sono diversi modi per imporsi all'attenzione degli alpinisti: oggi uno dei sistemi più imitati è quello di aprire ed attrezzare molte vie, preferibilmente declinare con maggiore o minore difficoltà lo stesso percorso base sulla stessa parete o nella stessa zona, allo scopo di favorire il maggior numero di ripetizioni. Fino ad una decina di anni fa invece si cercava la grande impresa, quella definitiva: il grande itinerario possibilmente irripetibile con quello stesso minimo di mezzi artificiali; prima ancora, negli anni '60, più tempo si passava in parete, più la via era considerata difficile.

Lo stile di un alpinista si evidenzia dopo qualche anno e difficilmente cambia con il tempo. Accanto, c'è la storia parallela dei fuoriclasse istintivi, quelli che non ostentano uno stile e alla fine sono più carismatici di altri. Gli istintivi tendono ad adattarsi, a cogliere l'occasione, a programmare poco. Sono fulminei nelle loro decisioni, ed in genere perseverano anche quando hanno capito di avere sbagliato, perché in qualche modo sentono che la loro scelta è comunque giusta.

Hermann Buhl divenne il mio eroe e lo è ancora oggi. Se fosse ancora vivo quest'anno compirebbe i settantaquattro e sarebbe di certo ancora in attività. Probabilmente un po' meno povero, meno vagabondo, più centrato sulle esigenze della realtà e dei nipoti.

Credo che Hermann avrebbe saputo resistere al più forte ed invincibile dei miraggi, quello dell'odierno asservimento alle esigenze di produzione di merce da vendere. Oggi si assiste ad un progressivo appiattimento della cultura, dell'arte e dello sport: anche l'alpinismo non può fare altro che difendersi. E se dico oggi, 1998, che Buhl avrebbe accondisceso a ben pochi compromessi con il mondo dell'industria sportiva o dello spettacolo posso dirlo di sicuro con la complicità della sua morte inopportuna di più di cinquant'anni fa, ma anche con la certezza di non sopravvalutarlo più di tanto.

Buhl si espresse prima di questi cambiamenti: visse quel momento magico che fu posteriore all'epoca di Riccardo Cassin, Emilio Comici e di tutto il sesto grado, ma fu anteriore alla professionalità di Walter Bonatti ed alla figura totalizzante di Reinhold Messner.

Quello di Hermann non fu alpinismo esplorativo: fece pochissime prime ascensioni sulle Alpi e non così importanti. Piuttosto le ripetizioni delle più celebri vie lo portarono alla ribalta, come pure le audacissime prime solitarie ed invernali, sempre cinque o sei anni in anticipo sui tempi. La grande "prima" che fece fu il Nanga Parbat, e là di esplorativo non c'era nulla se si pensa a quanto la "Montagna nuda" fosse già stata il bersaglio tragico di molte spedizioni. Non fu alpinismo di conquista con ogni mezzo e per capire ciò è sufficiente paragonare la sua solitaria vittoria al Nanga Parbat, solo contro il monte, contro se stesso e perfino contro i medesimi compagni di spedizione, al tecnologico successo che Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay riportarono sull'Everest nello stesso anno 1953.

Solo nella sua ultima spedizione in Karakorum, sul Broad Peak e sul fatale Chogolisa, percorse da par suo i sentieri della grande esplorazione su montagne pressoché sconosciute.

Ma dicendo che non fu alpinismo esplorativo o di conquista non nego che entrambi fossero presenti nelle sue iniziative: sottolineo che Buhl è soprattutto esempio di un alpinismo simpatico, portavoce di una montagna da conoscere e da vincere, ma prima ancora da amare e con la quale convivere. È l'iniziativa intraprendente del singolo, quel barlume di umano che chiunque può sentirsi dentro ma che non è a tutti dato poter esprimere.

Come fu per Gary Hemming, nell'episodio del salvataggio sul Petit Dru (1966) e per tutta la sua vita. Ecco perché li sentiamo così vicini. Molti di questi istintivi non hanno avuto tempo di scrivere, sono morti prima, come Heini Holzer, l'alpinista spazzacamino che tanto avrebbe avuto da raccontare.

Buhl ancora oggi fa sognare che l'avventura sia lì a portata di mano. Se andassimo a scalare la Nord-Est del Pizzo Badile partendo da casa in bicicletta e facessimo questo da soli, senza un soldo in tasca, faremmo esattamente quello che egli fece quasi cinquant'anni fa. Ma la simpatia di lui che dalla cima scende slegato per lo Spigolo Nord, risale pedalando i tornanti del Passo Maloja e casca di notte, stanco morto, nelle gelide acque dell'Inn è un episodio unico nella storia dell'alpinismo, irripetibilmente comico e grande.

L'odierna divisione dell'alpinismo in arrampicata sportiva ed alpinismo classico sta portando significative modifiche ai meccanismi di pensiero sia della gente che guarda da lontano (o che non guarda) sia degli addetti ai lavori.

Paul Preuss non era certo della mia generazione, eppure tutti i miei amici di trent'anni fa sapevano chi fosse. Poi ecco calare un'oscura ignoranza su Preuss e su tanti altri, tra questi lo stesso Buhl.

All'inizio dell'arrampicata sportiva, quindici, venti anni fa, si sapeva con massima precisione quante flessioni con un dito solo faceva Patrick Edlinger mentre si vociferava che l'asso inglese Jerry Moffatt si tingesse i capelli. Si sapeva molto meno di Wolfgang Güllich e del suo vagabondaggio di ricerca, ed ancor meno delle magie di Maurizio "Manolo" Zanolla.

Ci sono e ci sono stati tanti criteri, e così pure tanti feticci.

Ma l'arrampicata sportiva, come ogni sport, non ha mai prodotto una letteratura importante e si spera quindi che, al di là della cronaca, ci sarà un ritorno dell'alpinismo e dei suoi grandi, almeno per ciò che è stato scritto o si scriverà: un ritorno filtrato dall'esperienza sportiva di questi anni.

Un po' quel che fece Reinhard Karl, altro sognatore capace di far sognare.

"Non può accadere nulla, se c'è anche Hermann Buhl..." (Heinrich Harrer, primo salitore della Nord dell'Eiger). "Non ha avuto il tempo di diventare un maestro e non ne aveva le caratteristiche: era un indipendente nato, spinto alle imprese da un temperamento dall'eccezionale audacia" (Marcel Schatz, membro della spedizione francese all'Annapurna). "Al tirolese Hermann Buhl riuscì il quasi impossibile... circa 1400 metri di dislivello senza ossigeno, dalle due di notte fino alle sette di sera, tratti di difficile arrampicata su roccia, circa quaranta ore nella zona della morte: è stata un'impresa senza paragoni" (Reinhold Messner). Questi giudizi sono datati nel periodo 1957-1979.

Da allora l'interesse per la figura di Hermann non si è spento, ma è brace che cova: forse occorre attendere che qualcuno dica cose nuove su di lui o che ne riprenda l'esempio. La scalata agli ottomila in stile alpino (senza portatori, assedio, corde fisse), così tipica del nostro tempo, ha probabilmente attirato l'attenzione del pubblico. Ma i protagonisti sanno bene (o dovrebbero sapere) a chi attribuire il merito sia teorico che pratico di un ottomila in stile alpino: a Buhl. Egli infatti, assieme ai suoi tre compagni di vagabondaggio, colse quella domanda sul Broad Peak e la sua risposta ancora oggi scorre nel vento.

Può darsi quindi che seguire Buhl sia ritornare un poco alle origini, alla fonte del moderno osare, ma inseguire Buhl è soprattutto rivivere i propri ricordi, perché chiunque abbia lottato contro la propria debolezza per poter vivere qualcosa ha facilità a ritrovarsi con lui e con i vagabondi cantati da Dylan e Springsteen. Messe da parte le differenze di età, di difficoltà e di luoghi, ci ritroveremo gli stessi dubbi, le stesse gioie che un tempo abbiamo provato.

Buhl ci è molto vicino, è un mito che ci scalda, non un punto luminoso cui fare soltanto riferimento. Quella sua umanità, che traspare così tenera nel suo agire e nel suo raccontare, è entrata nel nostro cuore.

La vita

Hermann Buhl nasce a Innsbruck il 21 settembre 1924. L'innata passione lo porta assai presto in montagna dove, i primi tempi con attrezzatura a dir poco rudimentale (pantofole e corda da bucato), sale subito alle estreme difficoltà sulle pareti vicino a casa del Wetterstein, del Kaisergebirge e del Karwendel. In seguito ripete le più importanti pareti del tempo, sia nelle Dolomiti che nelle Alpi Occidentali. Tra le sue prime più grandi, la Marmolada, parete Sud-Ovest, via Soldà, prima invernale con Kuno Rainer, il 19 e 20 marzo 1950; oppure il Pizzo Badile, parete Nord-Est, via Cassin, prima solitaria in quattro ore e mezza, il 6 luglio 1952. Nella notte tra il 28 febbraio e 1 marzo 1953, per allenarsi al progetto Nanga Parbat, sale la parete Est del Watzmann per la via dei Salisburghesi in prima invernale notturna solitaria.

Poi la montagna della sua vita: il Nanga. Grazie a lui, e solo grazie a lui che rimase solo dai 6700 metri in su, il 3 luglio 1953 il terzo ottomila è conquistato (dopo Annapurna ed Everest): un'impresa che gli costa gravi amputazioni alle dita dei piedi per i congelamenti riportati ed una lunga convalescenza. Ma nel 1956 si sente poi ristabilito da salire (1 agosto) in tre ore e in prima solitaria la via Auckenthaler alla parete Nord della Lalidererspitze.

Infine l'epilogo, la prima spedizione leggera ad un ottomila, il Broad Peak. Hermann Buhl, con i suoi giovani compagni Markus Schmuck, Fritz Wintersteller e Kurt Diemberger, vi riesce in stile alpino e cioè senza assediare la montagna con corde fisse e campi intermedi riforniti da portatori. Hermann e Kurt decidono di continuare la loro campagna: il Chogolisa, una montagna di oltre settemila metri, è lì vicino, seducente. Una bufera li costringe, già ben alti, a desistere. Nella discesa sulla cresta i due procedono ciascuno al proprio passo e Kurt s'accorge poco dopo che una gigantesca cornice di ghiaccio è crollata e s'è portata nella caduta ogni traccia fisica dell'amico Hermann. È il 27 giugno 1957.

Sull'onda emotiva di questa tragedia, il diario di Buhl è pubblicato poco dopo: in Italia appare nel 1960. Ripubblicato nel 1984 e ben presto esaurito, occorre aspettare quest'anno 1998 per avere grandi novità su Hermann Buhl: Horst Höfler e Reinhold Messner (che oltre ad essere un grande alpinista e scrittore è pure un attento storico) vogliono vederci chiaro su chi prese a suo tempo i diari originali di Buhl e li adattò a libro. A loro parere il giornalista Kurt Maix interpretò il materiale un po' troppo soggettivamente. Oggi il diario autentico è una realtà, Hermann Buhl, in alto senza compromessi, Edizioni Vivalda.